Franco Cimino: "La Naca che parla alla e della città"

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  30 marzo 2024 11:42

di FRANCO CIMINO

La religiosità popolare ha molti significati, che si muovono su tanti campi della vita delle persone. Da quello antropologico al sociale, da quello culturale al morale, da quello economico al religioso. Le processioni rappresentano uno strumento attraverso il quale questa articolata religiosità si manifesta. La loro ferma calendarizzazione rafforza questo processo. Il culto che ne consegue si muove, a volte quieto a volte inquieto, lungo la sensibilità tenera e fragile della gente. L’attesa di quel dato giorno, poi, crea quell’humus che, piano piano l’evento si avvicini, serve alla comunità per ritrovarsi. Chi nella fede, i meno, chi nella identità sociale, i più.

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Tutti però si ritrovano nel luogo di appartenenza, il pezzo di mondo che si sente proprio, quale che sia il rapporto fisico-temporale con esso. Tutti si ritrovano nel dato giorno, a quell’ora stabilita. In quei tutti, solo apparentemente inteso in senso lato, ci sono le persone, le famiglie, i giovani e i vecchi, le donne e gli uomini. I credenti e i non credenti. Perché la processione, e la ritualità che l’accompagna, è fatto sociale davvero comunitario. Lo è in quanto identitario, il momento, cioè, nel quale ciascuno si sente parte di quella comunità. Ne sente l’anima, la memoria, la storia. Anima, memoria e storia, dei padri e delle madri, i propri di ciascuno. Le sentono anche in quella genitorialità antropologica la più lontana nel tempo, per la quale si è tutti figli della Città, che è sempre madre e mai matrigna. Tradizione e religione, si fondono. Si confondono.

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Si uniscono in un altro elemento che io non saprei definire, nonostante le molteplici denominazioni che osservatori e studiosi ne hanno dato. Le parole a volte non hanno significato o non riescono a rappresentarlo pienamente. Come nel fatto “ mistico-magico”, antropo-religioso, socio-psicologico, etico-culturale, psico-spirituale, e perché no?anche filosofico- teologico, della nostra Naca, la processione antica e di incerta datazione, che fa “ camminare, portata a spalla oggi dai Vigili del Fuoco( anticamente dai calzolai, contadini e artigiani), per le vie, oggi più brevi, di Catanzaro. Ogni anno parte e ritorna in una chiesa diversa, anche per tenere in vita una tradizione che voleva ogni parrocchia del Centro Storco la propria processione del Venerdì Santo.

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Nella processione di Gesù morto, deposto in un velo o nella culla, secondo le due traduzione della parola dialettale, seguito da Maria Addolorata, c’è tutto, variamente distribuito nei convenuti. C’è fede autentica e sentimento religioso, c’è credenza e superstizione, c’è pietà e festa, frenesia collettiva e commozione individuale, c’è preghiera autentica e richiesta di una “ grazia”tanto per “ e se fosse vero? E se Dio ci fosse?” Nella Naca c’è il cammino di un popolo che ha sofferto e lottato, in strada e per i campi di ogni battaglia. Pregato, nelle moltissime chiese. E lavorato, nei campi, nelle officine, nelle botteghe d’arte e artigianali. Nelle scuole per pochi e nelle piazze dei tanti. Quelle delle urla del dolore sociale e di una protesta che non ha mai rivoluzionato il nostro vivere. C’è il dolore odierno e la speranza che tutto cambi. C’è la preghiera per i nostri figli e il ricordo struggente dei nostri cari “ assenti”.

E la richiesta al “ Superiore”, Dio o forza invisibile altra, perché ci dia la forza di resistere ai tempi ritornati “selvaggi”, alle paure che essi iniettano nel tessuto sociale e nella mente delle persone, alla fatica di contrastare ogni povertà che ci sta prendendo, rendendo sempre più incerto il nostro domani. Di resistere alla visione tragica delle immagini di morte e di violenza che giungono dalle piccole e grandi guerre, tutte “ mondiali”, non solo per il pericolo reale di una loro progressiva estensione. C’è il bisogno di ritrovare il coraggio di opporsi, come bene ha detto ieri, mons Claudio Maniago, il nostro Arcivescovo, all’idea che la morte, imposta dalle diverse violenze, sia un evento inevitabile, un fatto con cui convivere. Ovvero, un comodo alibi per giustificare l’assenza di dolore e accettare le nostre divisioni e l’indifferenza del nostro essere “ diventati” diversi. Ché l’Amore, e l’Amore di Gesù e per Gesù, unisce gli uomini, mentre la morte divide( io penso, me ne scuso con lui, che anche la morte unisca oggi se avremo recuperato in noi il senso della Vita).

La Naca è spiritualità intensa, quale che sia la forma individualmente sentita. È uno degli atti di fede più profondo. Più commovente. E più bello nella tenerezza della compassione sul mondo che essa genera. È ancora altro, la Naca. È radici. È terra che odora di terra. È, lo dico da cattolico, anche un momento di alta laicità, quando raduna, come da convocazione popolare, un intero popolo, intorno ai suoi valori fondanti la comunità anche civile. La fratellanza, la solidarietà, l’altruismo nella piena donazione a chi ha più bisogno e all’intera Città. È senso di appartenenza, identità. È riconoscimento di sé nell’altro. Negli altri. È incontro tra persone che diventano comunità.

È coscienza individuale, che nel passaggio a quella sociale diventa popolo. Unito. Indivisibile. È il ritrovarsi insieme nella Città per rinnovare la sua storia, vivendola nella vita quotidiana. È dovere civico, e religioso per i credenti, di trasmettere questi valori e questa fede ai nostri figli e questi ai loro. Di educarli all’Amore. Vero. Quello per la Città, la nostra, piccola piccola. E quella grande grande, il mondo. All’amore per l’essere umano, il catanzarese, uno di noi, e il catanzarese che c’è in ogni persona, che è tutti noi. Educarli alla speranza e al sacrificio costante, ché non si crea Amore senza speranza e senza la dura fatica per costruirlo. Con gli altri. Per sé stessi e per gli altri. Per questo ieri, davanti alla chiesa del Rosario e lungo tutto il percorso e nella piazza grande, si è vista tanta gente che la mia memoria non ricordava in questa enorme quantità. Io che non so contare e con le operazioni aritmetiche non me la regolo affatto, posso dire di averla contata, quella quella gente, uno per uno dentro di essa.

Mamma mia quanta! Famiglie con bambini anche piccoli, uomini, donne, anziani, persone fragili, si era in migliaia. Non folla anonima, ma popolo. Non curiosi a passeggio sotto un limpido cielo di primavera, ma catanzaresi che avevano voglia di incontrarsi. Di ritrovarsi. Per uscire da quella sorta di isolamento che ci ha lasciato il Covid sulla pelle, per il bisogno di vincere le paure sociali ed esistenziali, per trovare risposte ad alcune domande non dette, per sentire la fede, per il bisogno di chi è rimasto solo e abbandonato di sentirsi “ veduto”, o anche soltanto salutato, per chi aveva solo il desiderio di esserci e di sentirsi parte. Questo è stato? Sì, tutto questo. Quella larga presenza significa anche partecipazione. Desiderio di essere catanzaresi “insieme”. Per fare più bella Catanzaro. Come lo è stata ieri con tutte quelle persone ad invaderla. Ché la Città è soprattutto la sua gente, che se ne prende cura e la difende. Anche con la presenza nelle vie. Una presenza ammirata. Sognante. Una presenza propositiva. Una presenza come presidio d’Amore per lei.

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