di FRANCO CIMINO
"Eugenio (possiamo chiamarlo col nome e darci del tu, almeno sia questo il segno della nostra comunanza, visto che quando conviene, a noi e a loro, ci sentiamo affratellati da una calabresitá da ambedue le parti occasionalmente riscoperta) ha sbagliato. E solo lui, Eugenio Gaudio, ha sbagliato. E per tre volte. La prima, quando ha accettato l’incarico( perché di questo si tratta, la sua è stata accettazione, per nulla mitigabile con la solita frase del “ ci penso e poi vi dico”, che viene tirata fuori sempre un qualsivoglia dopo), probabilmente con quello sguardo che, ormai da tempo, si ha verso la propria terra lontana quando “ politicamente” aspettiamo che essa sia costretta, per la povertà assoluta in cui si trova, a chiamarci per salvarla. Magari, con un bel seggio sicuro in parlamento o la elezione sicura a presidente di Regione o a sindaco di importanti città. Siamo pieni di questi casi, tentati, accennati, realizzati. Si va via di qui, “terra amare e matrigna”, perché l’ingegno o la fame reclamano e si torna quando si è forti e al sicuro di ogni bene, proprio e familiare.
Personalmente non ho mai amato queste soluzioni e molte delle persone che le hanno incarnate. Le ho pure apertamente contestate. La sensazione fastidiosa che mi procurano è che esse, eccezioni nella regola e dignità di persona a prescindere, facciano la stessa cosa che imputiamo ai “ forestieri” quando li accusiamo di volerci occupare o sostituirsi ai calabresi perché corrotti e incapaci, tutti. Tutti? No, sono soli pochi. Che contano molto. Ed essi contano molto solo perché i pochi coraggiosi, che qui restano e con grandi rinunce e rischi personali, non trovano il sostegno della gran parte dei calabresi. I quali sempre si dividono tra indignati che mandano tutto a quel paese e si chiudono in casa utilizzando la rete solo come sfogatoio, e quanti, al contrario, cedono rassegnati al ricatto di quei poteri che abilmente agiscono, attraverso il clientelismo (il reato, se fosse normato, più pesante del voto di scambio) sui bisogni fondamenti che quegli stessi poteri hanno creato e progressivamente alimentano. Il secondo errore di Eugenio, si trova nelle pieghe di quel che ho sopradetto.
Dinnanzi alla fatica di doversi sobbarcare il peso di una situazione gravida di mille problemi, duemila rischi, tremila condizionamenti da parte di poteri visibili e non, della brutta politica e dei suoi numerosi sottoscala, probabilmente non ha trovato il coraggio di scendere “ al sud più a sud del sud”. L’amore per la sua terra, quello derivante almeno dai suoi Natali, non gli è bastato o presumibilmente, a forza di far carriera sempre lontano da qui, lo ha smarrito per strada, laboratori, aule, corsie e salotti della Roma bene, quella che conta. Tutto questo senza nulla togliere allo scienziato e alle qualità morali dell’uomo e del professore, del medico e del ricercatore. Il terzo errore, lo ha commesso l’uomo Eugenio, il compagno e il marito. È quello di dare in pasto alla pubblica opinione la presunta opposizione della moglie alla sua nomina commissariale. Non è mai bello per una personalità pubblica richiamare fatti privati a motivo delle proprie scelte. Un calabrese non lo fa. Non lo deve fare, se vuol restare ed essere calabrese. Prudenza e sentimento, poi, imporrebbero tutela dei propri affetti rispetto agli sguardi e alle reazioni altrui. Si chiama, ovunque nel mondo, privatezza. Alla fine di quest’altra commedia senza autore Eugenio Gaudio, l’eminente uomo di scienza e celebrato accademico, sarà chiamato a pagare sul piano del prestigio personale un prezzo molto più alto della fatica, e dei conseguenti rischi, che avrebbe dovuto, impiegare nella sua regione. Per la sua terra.
Detto questo, trovo assai fastidioso l’assalto mediatico che è stato portato alla signora Ida Cavalcanti, nata e cresciuta a Cosenza, affermata anche lei nel mondo sanitario, attraverso, così dicono le cronache, un avviato studio e laboratorio di tanti servizi medici. Le stesse cronache dicono che sia una tifosa sfegatata del Cosenza e che quando le riesce segue la squadra più da vicino. La Signora Ida è la moglie di Eugenio, madre dei suoi due figli, probabilmente anche nonna dei suoi nipoti. In quanto tale, ha tutto il diritto di condizionare, e porre veti, le scelte del marito se queste incidessero sugli assetti familiari e sugli equilibri di coppia che solo loro due conoscono. Io non so se l’ha detto davvero, quella frase, o che non sia stata una banale scusa inventata dal marito per giustificarsi con una motivazione fortissima.
Se ciò fosse, tuttavia, la signora avrebbe soltanto detto che non vuol venire a Catanzaro non che la nostra città sia brutta. Scatenare un’ondata di indignazione con il seguito di insulti, sottintesi e non, e di richieste di publiche scuse, e nel contempo elencare le grandi nostre bellezze, mi è parso, come sempre in queste occasioni, francamente eccessivo. Forse, fastidioso( alla città). Di certo, disturbante. Richiama, questo diffuso reagire, il solito comportamento vittimistico che tanto danno ci procura. Specialmente, ogni qualvolta si pensi, si ascolti o si sospetti che qualcuno parli male della Città, la stessa della quale ci occupiamo poco e della quale noi stessi (mi riferisco a una parte non a tutti catanzaresi, evidentemente) ne parliamo malissimo. Quando, poi, ad indignarsi duramente, protestando con maggiore veemenza, sono persone che occupano posti di responsabilità, specialmente nelle istituzioni e nella politica, l’assalto appare fuorviante, il solito misero tentativo di scaricare sugli altri le proprie responsabilità per le condizioni difficili in cui si trova, peggiorando, il Capoluogo di regione. Invece, di rispondere del proprio lavoro per Città, si inventano lo straniero che non la ama e chissà per quale congiura internazionale la vorrebbe sconfitta in tutte le battaglie che nessuno di loro fa. Rivolti alla signora di Cosenza e Roma, le si grida che a Catanzaro può venirci e viverci solo chi la ama.
Ecco, finalmente, una affermazione vera. Incomincino a lasciarla quanti non l’hanno servita con dignità e onore. E chi ne ha approfittato per il proprio tornaconto, chi non l’ha difesa dalle aggressioni di tutti i generi nei confronti della sua bellezza, a cominciare dai consumatori del suo suolo, dei ladri della sua terra (quella con gli alberi e l’erba e i fiori), della sua spiaggia, dei suoi percorsi lungo i due fiumi, della sua vista del mare e dei suoi monti. Chi non l’ha difesa dagli “occupatori” degli spazi della politica con il consenso attivo e passivo di quanti a costoro sempre si accostano per combattere ciclicamente il nemico inventato. Ed evitino di tornare anche coloro che l’hanno abbandonata nella sofferenza e nel dolore, e che nelle tante volte in cui, nel silenzio della sua voce soffocata, la nostra “amata” ha chiesto aiuto e non è stata “ sentita”. Amare chi si ama, significa sofferenza, rinuncia, sacrificio, oblatività. Significa andare restando e tornare come se si fosse rimasti qui. E restare come se la si dovesse lasciare domani, donando tutto se stessi. In ogni momento della propria vita, ché della nostra vita il nostro luogo ha bisogno. Catanzaro si ama così".
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