di FRANCO CIMINO
Antonio Caminiti, Totò per gli amici, se n’è andato all’improvviso. Prematuramente. A sorpresa angosciosa per tutti. Se n’è andato facendo un rumore pazzesco. Se n’è andato come non sarebbe potuto essere diversamente. Senza salutare, ma pure senza quel vaffa che utilizzava nelle discussioni tra amici buoni. Specialmente, quello chiusi alla comprensione e al confronto. Sì, perché Antonio era un vulcano. Di idee, sempre intelligenti. Coraggiose. Innovative. Di passione, con quei suoi occhi sempre accesi, spesso arrossati dalla fatica e, forse, di qualche segreto pianto. Al quale, immagino, nel silenzio del suo pensare forte. inquieto, profondo, non si sottraeva, pur volendo restare forte come pretendeva di essere visto in questa società di perenni combattenti. Qual è quella particolare di Soverato, la sua città molto amata e servita nelle sue molteplici attività, da quella professionale a quella politica. A quella amicale, intima, familiare. Oserei dire di difesa di una tradizione. Ecco, Antonio è sempre stato queste tre cose insieme. Inscindibili. E ferme.
Era ingegnere, e di quello buoni. Preparati. E anche attenti, pur se in quelle contraddizioni proprie di una realtà urbana che da piccolo borgo, su una collina che scende al mare del suo antico villaggio dei pescatori, è cresciuta impetuosamente, da povera divenendo ricca. Antonio è cresciuto con eguale forza e rapidità con quella realtà e dentro quella realtà. Ma con una ambizione, purtroppo non pienamente soddisfatta. L’ambizione di fare di Soverato, l’antica( con Marina di Catanzaro, la perla dello Ionio) la guida di quella vasta area che, dopo l’elegante golfo di Squillace, si apre fino al confine di Monasterace. La linea di apertura, non di chiusura, fra le due province sempre stupidamente in conflitto, Catanzaro e Reggio Calabria. Il porto di Soverato, la sua idea fissa, non realizzata con suo grande rammarico. Il migliore “ ri-attaccamento tra i cosiddetti Soverato Superiore e Soverato Marina, non solo per rendere più plastica l’immagine di una unica città, e quindi, più ricca. Ma anche per realizzare quella unità civile e culturale tra due storie, anche urbane, da sempre ostinatamente separate. Queste le sue principali preoccupazioni, “ Soverato c’è, mancamu i Suveritani.” Riassumo così, liberamente, una delle sue impuntature …incazzose, mi si lasci passare il temine. Potrei dire ancora sul tema, ma credo che basti così per lasciarmi dire degli altri due. La passione politica. La sua era forte. Ma lo era più per il carattere che per la ragione. Sarebbe stata eguale se avesse fatto altro nell’associativismo civile. Fece politica con animo acceso per fare, realizzare, inventare, opere utili al quel primigenio disegno. A rendere produttivo il suo amore per Soverato. Fu per questo, un politico anomalo rispetto alla tipologia operante in quel tempo. Privo di ambizioni di potere, svolse quel ruolo con un atteggiamento suo proprio e quel “ vaffa” sempre pronto in tasca per ribellarsi alle cose ingiuste, agli atteggiamenti prevaricatori e alle manifestazioni di arroganza da ricerca del potere e alle logiche preconcettualmente divisive. Tonino, che pure non si risparmiava il combattimento e che non rinunciava a scendere nell’agone della lotta, non sopportava l’ipocrisia e le facili litigiosità. È così le rotture dei rapporti personali all’interno dell’ambito comune in cui insieme ci si sarebbe dovuti impegnare per dare risposte alla gente e soluzioni ai problemi cittadini. C’era pure che dopo i contrasti e le arrabbiature, ogni “ guerra” per lui si concludeva a fine battaglia. Nessun vincitore e nessun vinto, l’amico resta, nel suo animo sempre sgombro di rancori e spirito di vedetta. Qualche volta il muso lungo più allungato nei giorni, ma mai inimicizia per alcuno. Fu per questa sua originalità e sensibilità che sul finire degli anni ottanta, ora non ricordo con esattezza, risolse per me, allora giovane Segretario Provinciale della Democrazia Cristiana, una delle più pesanti crisi amministrative della Città del golfo. Eravamo la maggioranza del Consiglio. Una maggioranza lacerata da mille fattori, interessi politici contrastanti. E altro, soprattuto.
Gli chiesi, su consiglio del grande piccolo uomo, Gianni Amoruso, di fare il sindaco, anche per una fase di passaggio. E, quindi, per un tempo necessariamente breve, anche se il suo, per il mancato superamento di quelle divisione, fu ancora più breve. Fu di circa un anno di “sindacatura”. Accettó dopo non poche resistenze, per spirito di responsabilità, per rispetto della mia carica e, credo, anche per affetto nella comprensione delle mie fatiche. Da sempre democristiano, nel suo cuore nostalgico democristiano lo rimase per sempre. Di cultura moderata, orbitò, finita la DC, in formazioni politiche, una sola se non rammento male, che lui riteneva più affine al suo sentire. Ma non c’era volta in cui, quando casualmente ci si incontrava, non parlasse del nostro partito, stimolando in me discorsi molto sentiti e a lui graditi, intorno a quella “ nostalgia “, da sempre respinta con l’affermazione che la DC non fosse morta e i milioni di democristiani neppure. Per cui sarebbe bastato che ci si incontrasse idealmente in un luogo ideale per ricostituire il più grande partito democratico del mondo. Era, questa, la mia commossa ripetizione di un desiderio mai sopito in me. Antonio, realista ostinato sul tema, si emozionava in modo evidente. E, poi, con la sua solita ironia, cambiava discorso. Del tipo:” Fra’ che ti posso offrire? Il bar è qui davanti.” La terza personale intrecciata sua posizione, la famiglia. Apparteneva a una famiglia storica della Città, una di quelle che hanno dato spinta alla sua crescita, per quanto non sempre ordinata. I Caminiti erano davvero importanti, già da prima che si affermasse il noto, lontano nel tempo, senatore, Filippo, padre di Antonio, di cui io ho appreso poco. Antonio ha vissuto quel cognome come un surplus d’amore per la famiglia, il padre in particolare. Un surplus anche di responsabilità verso quella comunità a cui, a loro modo, quelle famiglie hanno dato tanto, in egual misura ricambiate. Antonio, cambiandolo quel modo antico di donare, voleva dare di più e meglio alla Città del mare bello. L’amore per la famiglia era anche rispettoso di un’antica tradizione alla quale i Caminiti avevano contribuito molto. Una di quelle forti, sospese tra fede e amore, tradizione e religiosità popolare. È quella che l’ha portato, oggi, a sostare nella chiesetta dei pescatori, luogo simbolo dell’antica rischiosa fatica dei marinari. È la devozione alla Madonna del Mare, quella che ogni anno, nella seconda domenica d’agosto, viene portata in processione a mare. Antonio non ne ha mancata mai una. Tra i portatori a spalla della sacra effige, si vedeva da lontano e tra la folla con i suoi folti capelli quasi da sempre bianchi, la divisa da marinaio e i piedi, talvolta scalzi. E gli occhi sempre lucidi da lacrime trattenute. Antonio se n’è andato, così rapidamente, forse come, in segreto dell’animo avrebbe desiderato. Senza salutare. Nel cuore le sue speranze. Nella mente i suoi sogni. Nei muscoli i segni di antiche battaglie. Nel suo sguardo, ora più delicato e romantico, il suo mare. Il mare che già lo sta cullando prima di consegnarlo, stasera all’imbrunire di certo, al Cielo. Il suo Cielo. Che lo riceve così come Antonio è sempre stato. E come non avrebbe potuto non essere. E, cioè, bello, giovane, vigoroso, dolce, vulcanico. L’ingegnere marinaio.
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