di FRANCO CIMINO
E sono quarantaquattro! Li ho contati e passati nella mente uno per uno. Da quel primo nove maggio. Era il millenovecentosettantotto. Ho contato anche quelli, gli stessi, che sono passati da quel sedici marzo e tutti i cinquantacinque giorni che separarono il tragico rapimento, con la strage della scorta, dalla barbara esecuzione finale di Aldo Moro, “ l’uomo buono e giusto” dell’inutile appello di Paolo VI, il Papa oggi santo. In questo giorno di celebra anche la giornata della memoria delle vittime del terrorismo.
E, paradossalmente, la Festa dell’Europa, per ricordare quello stesso giorno del 1950, in cui Robert Schuman, all’epoca ministro degli affari Esteri francese, lèsse la dichiarazione, concordata con Adenauer e De Gasperi, con cui si dava vita a quel primo corpo economico( la famosa alleanza del carbone e dell’ acciaio) da cui partì l’inarrestabile processo della costruzione dell’Europa Unita. Molti dimenticano, ovvero non sanno, che, presumibilmente alla stessa ora dell’uccisione del grande statista, a Cinisi, nella Sicilia di Cosa Nostra e di uno dei suoi capi più feroci, Tano Badalamenti, è stato massacrato Peppino Impastato, il giovane militante di Lotta Continua, che stava conducendo una delle più esaltanti battaglie contro la Mafia e la brutta politica che le era asservita. Un giorno,questo, il nove maggio, delle contraddizioni in cui retorica e dolore si intrecciano con la dimenticanza, quindi? Ovvero, quello del miscuglio affinché risultino poco accese le luci su tre avvenimenti che, invero, hanno una comune origine e lo stesso fine? Perché è proprio questo intreccio che non si vuol cogliere ancora, per fare del dolore e della cattiveria, della morte e della violenza, del sopruso e del disprezzo della persona, il filo invisibile e indistruttibile che porta sulla strada opposta. Partiamo da quel nove maggio millenovecentocinquanta, l’embrione dell’Europa. Il Continente era appena uscito dalla devastante guerra mondiale. Popoli e nazioni, vincitori e vinti, tutti in ginocchio. Il giuramento fu “ mai più guerra”. Mai più la guerra, significava. Non solo su questa parte del pianeta, ma nel mondo. Le Costituzioni nazionali, specialmente la nostra, lo giurarono così solennemente che se lo scolpirono all’interno. In tutte le loro pagine. L’Europa Unita, per quei tre immensi statisti, lungimiranti visionari insieme ad Altiero Spinelli, più che l’Unione di forze economiche per costruire modernità e sviluppo, era lo strumento, l’istituzione più alta, per costruire la Pace. Al proprio interno e nel mondo. La Pace vera, che non è l’intervallo tra due guerre. La Pace vera è quella stabile quiete del rumore di cannoni e quel dinamico inarrestabile movimentare di idee, passioni, progetti, energie naturali e umane. È il tacere delle sciabole e, insieme, il fruscio del vento tra le fronde della vita che si rinnova ogni giorno, in ogni stagione. La Pace è, quindi, la Libertà che diviene. Dapprima da se stessa nata, poi dagli uomini e negli uomini riconosciuta. E, poi, nel divenire della società attraverso la sua più preziosa dimora, la Democrazia. Pace non cerca giustizia, non fatica per l’eguaglianza, non si industria per la ricchezza. Pace è. Soltanto è, perché contiene giustizia, eguaglianza, fratellanza. Tra le persone e nella persona. Nei popoli e tra i popoli, di cui gli Stati e le nazioni sono ambiti nei quali sono riconosciute e valorizzate le molteplici identità, le numerose preziosità territoriali dell’unica terra. Il mondo, la terra di tutti. Origine e fine ultimo, che muove dall’inizio di quella idea di Europa per il mondo, è la Vita.
Tutta la vita. Che è nell’uomo e nella natura. Il lavoro, che, insieme, uomini, governi e istituzioni, comprese quelle economiche, devono compiere, è costruire gli strumenti attraverso i quali la vita si libera dalle minacce del dolore e delle ferite, e costruisce la felicità possibile. Qui, sulla terra, nel tempo che è dato alle comunità e ai singoli uomini. È la Politica. Questa è la Politica, il luogo nel quale l’individualismo, da cui nasce l’egoismo, viene assorbito dal solidarismo, la prepotenza, da cui nasce la violenza, viene sconfitta dalla partecipazione e dal rispetto assoluto per gli altri, l’istinto di voler agire sugli altri, da cui nasce il potere di decidere sulle persone e la loro vita, viene sostituito dal potere di fare cose per gli altri, il bene comune. L’Europa è tutto questo ben di Dio. Nulla di meno. Proprio nulla. Aldo Moro, fu leader vero. Non solo, pertanto, un grande statista o la guida intellettualmente illuminata della Democrazia Cristiana. Fu leader vero di questa Europa e di questa visione del mondo. Tutta la sua vita politica camminò lungo questa direzione. Il suo voltarsi spesse volte indietro era per non perdere le tracce del suo percorso.
Ovvero, per non perdere memoria di quell’ideale insuperabile. Ovvero, ancora, per guardare le macerie che si erano abbattute sull’umanità e sul progresso. Aldo Moro, il filosofo della libertà e il poeta dell’amore, il politico della Pace, fu assassinato, dalle molteplici forze che lo scelsero come nemico assoluto, per queste sue idee. Per questa visione del pianeta. Per la sua concezione, anche cristiana, della vita e dell’essere umano. Per la forma gentile e la mitezza d’animo con cui operava ovunque impegnasse il suo cuore e il suo ingegno. Per la sua immarcescibile concezione della Politica quale luogo dell’incontro tra diversi, di sintesi tra contrastanti posizioni, di risoluzione pacifica di ogni contrasto nel principio riaffermato che la guerra sia stata abolita una volta per tutte. Perché essa mai e poi mai potrà più essere utilizzata quale forma per superare i contrasti. Ovvero, come arma micidiale in mano al più forte per occupare territori altrui, annettersi nazioni, impadronirsi delle ricchezze di queste, umiliare i popoli vinti. I popoli liberi. Ovvero ancora, scacciare i poveri in cerca di pane e i propri simili che non ci rassomigliano e, perciò, negativamente stigmatizzati quali diversi. Aldo Moro è stato ucciso perché era lui. Coraggiosamente lui. Testardamente lui, come più volte gli fu minacciosamente detto. Non è un caso che quarantadue anni dopo quel nostro tragico nove maggio l’Europa si trovi a vivere una nuova incredibile guerra e di riflesso, anzi per proiezione, il mondo intero per la minaccia che incombe su di esso. E per le conseguenze belliche, che gravano sulle economie di tutti i paesi già impoveriti pesantemente da due anni di un’altra guerra mondiale, quella del Covid. Quarantadue anni senza Moro, con gli ultimi venti che sono stati anche quelli dell’ignoranza totale della sua persona, del suo pensiero e del suo ruolo nel mondo, si vedono tutti. Si sono visti anche nella trionfale sfilata di armate militari in alta uniforme in quella piazza Rossa di Mosca, dove un triste e solitario dittatore con manie di persecuzione e di dominazione, sputava parole mozzicate dall’odio mentre a poche centinaia di chilometri, sotto i colpi “ di mortaio” e passi di stivali nel fango arrossato, morivano ancora migliaia di vecchi, donne e bambini, uomini inermi. E giovani in divisa pur di diverso colore.
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