di FRANCO CIMINO
C’ero anch’io, ieri, dietro una lunga fila di auto, sul ponte Bisantis, più noto come il Morandi. Sono pure sceso per avvicinare il lungo esercito di valorosi poliziotti, che cercavano di convincere l’uomo che stava in bilico sul cornicione con le sole braccia che abbracciavano quel palo della luce, che ancora spenta, separava la vita dalla morte, la terra del cammino da quella della caduta. Il rumore del traffico dal tonfo assordante. La disperazione per la vita perduta dalla speranza di una vita ritrovata. Sono stati minuti intensi, con il cuore che batteva tanto forte che mi saliva negli occhi e mi offuscava la vista. Quella vista, mentre lo sguardo si allungava oltre quel ponte, lungo le strade isolate che quell’uomo avrà percorso prima di arrivare fin lì, con quel corpo pesante e la mente tanto stanca da non riuscire a capire, io, come quel cinquantenne fosse riuscito ad arrampicarsi su quella tragica meta. Ci vuole agilità e forza, dove l’abbia trovata non mi riesce ancora comprensibile. Il mio sentire, a volte inquietamente fortissimo e indovinante, mi diceva che se non si fosse radunata troppa gente a curiosare, il tragico epilogo non si sarebbe verificato. E, però, la paura era egualmente tanta. Si univa a un forte senso di responsabilità, e di colpa, verso il fatto più temibile.
Come non sentirsi colpevoli se non fosse sceso da lì, con quelle scarpe talmente consumate che avrebbero potuto farsi scivolo oltre la sua ultima decisione di restare ancora qui? Questa paura contrastava con quel mio sentire. I due momenti si mescolavano trasformandosi in certezza nell’atto in cui, finalmente, quell’uomo si e fatto prendere per mano da uno dei poliziotti, quello che gli ha parlato per tutto il tempo( sono stati tutti bravissimi): quell’uomo voleva vivere. Gli era rimasto in petto un anelito, ancora più piccolo e sottile, di cui non aveva contezza prima di quell’attimo infinito. In testa gli batteva, come un battito di cuore, un’idea bambina. Quella che aveva smarrito lungo il tempo delle delusioni, dei dolori, degli inganni, dei negati amori, delle solitudini, delle marginalità, delle frustrazioni e delle sconfitte. Quelle sconfitte, in particolare, che in questa società delle guerre diffuse pesano moltissimo. E non come la somma di risultati mancati o di partite perdute, ma come il marchio sociale della propria nullità. La certificazione che, se non hai lavoro e non hai una famiglia perché senza lavoro non te la puoi fare o la perdi, sei un fallito. Perdi tutto il credito sociale. Le amicizie prima, i parenti dopo, le relazioni più diverse in ultimo. La solitudine diventa la tua unica compagnia. E, a volte, la sensazione che anche quella ti abbia abbandonato si fa sempre più convincente.
La società li ignora, “ questi scarti”, scarica sulle istituzione il farsi carico dello “ sconfitto”. Quelle istituzioni che, invece, sono distratte da altre faccende, diciamo più politiche, e che gli emarginati e gli sconfitti neppure vedono. Oppure, trasferiscono, come puri atti formali, alla burocrazia. Questa, che l’anima non l’ha mai avuta ed anzi è nata proprio per segnare il distacco “ burocratico” tra le carte e le persone in esse volutamente nascoste, tratta il problema ma non il bisogno che lo origina. Il bisogno ha gli occhi e il volto delle persone. Anzi, della persona. Perché è la persona che, in quanto essere umano dotato di piena dignità e di tutti i diritti, denuncia il problema come colpa della società, delle istituzioni, della burocrazia, per le gravi ingiustizie che, a cause delle più assurde diseguaglianze, su di essa si abbattono. Come una montagna che si rompe.
Ieri, quel tardo pomeriggio, era l’inizio del tramonto. Ieri era un giorno di Primavera piena. Non c’era vento a disturbare il calar del sole. Quell’uomo non più giovane, se mai lo fosse stato, non ancora vecchio, se da tempo non lo fosse già, è divenuto, in un solo fatto, Primavera e attesa del crepuscolo. E speranza di una sera che salti la notte e si annunci timida e riposata all’alba di un giorno nuovo. Quell’uomo non voleva morire e non chiedeva di essere salvato. Voleva soltanto indicare, in questa fase di solitudini e dolori generalizzati, che fingiamo di non vedere neppure su noi stessi, una via nuova per la salvezza. Non la sua soltanto, ma quella di tutti noi. Dell’intera Città, troppo sorda al dolore, troppo indifferente al degrado che la sta consumando, troppo lontana dalla Bellezza che ancora la copre nonostante noi, suoi cittadini dediti al brutto. La via di un’umanità nuova, in cui ciascuno prenda il giusto dal suo lavoro e doni di sé il giusto per gli altri, quelli che non ce la fanno. Che stanno indietro, non perché incapaci o “ cattivi”, ma per quell’inciampo della vita che li fa cadere. Una società che può continuare a camminare pure aspettando chi si è fermato. Perché “ dalle difficoltà o si esce insieme o non si esce affatto”, ce lo dice la Chiesa di Francesco.
Basta ascoltare Lui, se i troppi impegnati o i troppo laici, ché fa più democratico, non vogliono leggere il Vangelo oppure i libri delle grandi dottrine umanistiche, umanitarie e autenticamente rivoluzionarie. Pure a Catanzaro, dove opera alacremente una Chiesa locale che volge la sua concreta carità agli ultimi, intesa anche quale silenziosa denuncia dell’ingiustizia e della “ stupidità” di questa politica, che il suo sguardo lo volge altrove. Nel posto dove gli uomini e le donne in carne ed ossa non ci sono, ma tanti falsi guerirei, di ignoranza e tracotanza armati, che si fanno la guerra tra di loro. Mentre la vita rischia di finire e “ di farsi morire” da un’altra parte.
Testata giornalistica registrata presso il tribunale di Catanzaro n. 4 del Registro Stampa del 05/07/2019.
Direttore responsabile: Enzo Cosentino. Direttore editoriale: Stefania Papaleo.
Redazione centrale: Via Cardatori, 9 88100 Catanzaro (CZ).
LaNuovaCalabria | P.Iva 03698240797
Service Provider Aruba S.p.a.
Contattaci: redazione@lanuovacalabria.it
Tel. 0961 873736