Franco Cimino racconta Enzo e Ivan Colacino, "patra e figghju, nello spettacolo tra il teatro e la vita"

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Ivan ed Enzo Colacino sul palco del Teatro Comunale
  25 ottobre 2021 15:12

di FRANCO CIMINO

Il miracolo “meteoteatro” i Colacino l’hanno fatto in maniera plastica e assai piacevole a vedersi: tre serate consecutive di pienone in sala e tre sere senza pioggia e senza vento, che era un piacere aggiuntivo andare al Comunale, il Centro del Centro Storico. L’ultima, quella di ieri, addirittura ha consentito ai circa cinquecento catanzaresi di tornarsene tranquillamente a casa prima che la pioggia iniziasse a scendere e sempre più copiosa per tutta una notte assai insidiosa.

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In questo miracolo, chiamiamolo magia per rispetto alla fede e alla laicità dell’arte, c’è già il buon segno. Sul palcoscenico dedicato a Nino Gemelli, che l’ha calpestato per decine di volte e sul quale si alternano i suoi due allievi predelitti, Enzo e Francesco, la dedica di due artisti a un altro capolavoro di questa nostra Città, quel Passafaro, u pacciu chi sogna i cosi chi realizza, che di questo luogo ritrovato ne è diventato il signore, l’anima, il direttore e, con tutta la sua banda di pacci, il sollecitatore di speranze nuove. Ché il Teatro, tra dramma e farsa, questo deve fare. E da quel sempre del suo nascere e poi dall’antica Grecia in poi, con il bisogno dell’uomo di rappresentare se stesso e il suo vivere con gli altri senza che prudenza individuale e convenzioni sociali lo costringano a vivere fingendo. Il Teatro è la vita. È vita che si alterna, a volte intrecciandoli, tra sorriso e pianto, disperazione e speranza, sogno e realtà.

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Questo abbiamo visto al Comunale nelle due ore e mezza piene piene, al netto dei molti minuti di applausi che si sono susseguiti fino all’ultimo, lunghissimo e intenso. È il pubblico che decide il merito di un lavoro artistico, quasi sempre anche la sua qualità al di là del principio indiscutibile che il miglior critico è sempre la gente, l’insieme degli spettatori. Anche questo in “u figghju e Colacino” è avvenuto, e non per magia. Quattrocentoquaranta persone che, diverse per tre sere diverse, hanno riso a crepapelle dal primo all’ultimo minuto e ancora lungo le vie dell’uscita o tornando a casa, sono il più grande riconoscimento per il lavoro portato, “ dopo tanta fatica”, sul palcoscenico. Un premio che fa invidia a quelli materialmente consegnati nei tanti inventati in Italia per fare businnesssu (con tre s, direbbe Enzo). Uno spettacolo intenso, forse anche originale, con tutti i protagonisti, per merito della ideazione e della geniale messa in scena, al pari dei due mattatori, che hanno fatto a gara (scherzo) per prevalere l’uno sull’altro (scherzo) a colpi d’invidia (scherzo) che neppure la sfida da loro richiesta dell’applausometro ha saputo superare (scherzo !).

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I quattro musicisti, sempre presenti in scena, sono stati davvero protagonisti dell’intero spettacolo. Belli, giovani e bravi, hanno offerto musiche che, anche magicamente, hanno saputo ritmare melanconia e allegria, instillandole nelle parole di Enzo e Ivan e nella loro gestualità che da sola, sia nel padre che nel figlio, potrebbe fare spettacolo. Per far ridere e far piangere. Posso dirlo senza cadere nella presunzione? In “u figghju e Colacino”, sono stati rappresentati, tanti spettacoli in uno. Un concerto di un bel complesso musicale, di cui colpisce la stretta intesa dei quattro musicisti, tra i quali Francesco Silipo, che tra l’altro è un valente ingegnere del suono e un genio dell’applicazione della tecnologia più sofisticata alla musica non violentabile. Intesa, di certo anche amicale, tra i musicisti e una grande voce, quella di Ivan, che, noi colpevoli, non conoscevamo. Le imitazioni di tanti cantanti, che gli riescono perfettamente, sono dovute, io credo, alla qualità di quella voce, che oltre a essere bella, profonda e carezzevole, raggiunge tonalità ad altre impedite.

Lasciando stare l’ironia e i testi adeguati alle finalità della spettacolo, tutti azzeccati, Ivan ci ha offerto tocchi della sua capacità autorale davvero grande. Le sue composizioni, tra quelle due ascoltate, appaiono lontano dalle tante imitazioni che tanti cantautori, anche celebrati, sono tentati a fare, molti malriuscendovi. Ivan è un fenomeno con quella chitarra in mano reduce fortunosamente dai tanti fallimenti negli studi(pianoforte, violino…ci mancava sulu a cedra) cui era stato indirizzato da piccolo. Posso dirlo senza scadere nel vittimismo? Fosse vissuto a lu Norddu (con due d, come vorrebbe Enzo) invencia ma sinda torna ca’, avrebbe avuto certamente un grande successo, ripetendo stabilmente quello dei quarantamila di San Siro, ai quali ha cantato il pezzo che ha offerto anche a noi( una domanda a lui: "ma daveru cantasti a San Siru? ché io ci credo pienamente tanto sei bravo”).

L’altro spettacolo nello spettacolo, è stato lui stesso e la sua ironia insita nella persona creativa qual è. La sua educazione personale hanno fatto della caricatura più nota, quella del Sindaco, un gesto gentile, una satira rispettosa della persona e del suo ventennio amministrativo. Posso dirlo? Una carezza. Tra l’altro favorita dalla cultura che riveste tutt’intorno lo spettacolo: “state tranquilli agli apparenti doppi sensi, qui da noi non si fanno offese e volgarità e i bambini possono restare al sicuro qui dentro” . Sono le parole di Enzo, confermate pienamente in ogni passaggio teatrale. L’altro spettacolo, è il suo, Enzo Colacino, che io, lui lo ricorderà di certo, molti anni fa incoronai re di Catanzaro e che ieri, scendendo dal trono, si è fatto Catanzaro. Si è fatto quella maschera, per nulla assente pur senza che la indossasse, che il nostro Arlecchino, con cuore d’artista, ha “inventato” quale maschera della Città, contendendola con abilità culturale ad altre città e regioni che la reclamano. Il suo Giangurgolo gli somiglia talmente che Enzo, con la maschera del suo, rappresenterà per sempre quella di Catanzaro. Quel comico di antica memoria, intelligente, fine, a suo modo colto, che dice alla sua gente ciò che essa ha paura di sentire, che fa lo sberleffo al potere, che prende in giro i furbi, i mediocri e i ladri di fiducia e di bellezza. La maschera che fa ridere e riflettere, e incita i deboli e gli oppressi ad opporsi all’ingiustizia e a ribellarsi alla prepotenza. Enzo- Giangurgolo, è questa voce di Catanzaro, la Città che ama fino alla sciarpa giallorossa che gli cinge il collo nelle domeniche, sofferte e liete, della squadra di pallone.

Il quarto spettacolo è nella magica fusione dei tre. Farne un unico da componenti diverse tra loro, è davvero impresa assai difficile. Loro ci sono riusciti e bene. Perché, diciamolo chiaramente, Ivan ed Enzo, sono magnificamente diversi tra loro, due artisti pieni, distinti sebbene non distanti. Figli d’arte, ambedue. Ma dell’arte che li ha partorito entrambi. A non farli distanti, a farli anzi una cosa sola, una persona unitaria con due volti e due voci e due mimiche anche diversissimi (e pure il fisico, Enzu è atu e u figghju no, tutt’a mammà) è il legame di sangue. Su quel palco è andato in scena un altro spettacolo, tutto umano. Pieno. Coinvolgente. Commovente. Quello di un padre e di un figlio che si dicono con gli occhi e con le parole le cose più belle che in questo rapporto si possono dire. Le parole e gli sguardi che ogni padre e ogni figlio, specialmente all’età che hanno Enzo e Ivan, padre anche lui e di figli piccoli, desiderano sentirsi “ dire”. Li abbiamo visti, e chiaramente.

E il ridere si è fatto pianto. Sommerso e nascosto, ma pianto vero. Un pianto bello. Educante. Per tutta la bellezza della serata basterebbe la lettera che Ivan ha letto al padre facendo scorrere alle sue spalle le foto della sua vita. Una lettera apparentemente ironica, ma ricca di sentimento, per presentarci un Colacino che è più che il suo teatro, un Enzo che è oltre il “ pagliaccio” antico del più antico circo. Un uomo vero, che è stato bello e ganzu in gioventù, che si innamora della sua amata prima ancora di inventarsi passeggero in quel pullman studentesco per Roma. Un padre intelligente e generoso, persona semplice e onesta, amante tenero della vita e di ciò che la rende bella per tutti. Un racconto biografico, quello di Ivan, che le sue lacrime tratteneva dentro le parole o nell’ombra che cercava quando si girava verso il video per non guardare l’uomo, improvvisamente vecchio, seduto su quella seggiola. Un racconto che si è fermato dietro la porta di un dolore, di una paura, di una sofferenza indicibili, come il miracolo che l’ha tenuta chiusa per sempre. Quel miracolo che ci ha regalato lo spettacolo più bello in assoluto, quello della vita che si rinnova. E al mondo si ridona con amore più grande.

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