Non volevo sapere ciò che non ho voluto sapere. Non ho visto nelle televisioni ciò che non volevo vedere. Nè dalle radio o dalla rete sentire ciò che non volevo sentire. Di morti e di morti bambini ne era strapieno il mio cuore che uscivano rabbiosi dagli occhi. La mia testa era stracarica di urla di madri e di figli, di vecchi disperati, che, come fiume infuocato, mi uscivano dagli orecchi. Le immagini di guerra in Italia, proprio non volevo “vederle, sentirle, udirle”. I miei occhi, i miei orecchi, erano stati già “ bombardati”dalle numerose scene di guerriglia urbana, che a ritmo sempre crescente ancora si susseguono nelle nostre strade. Ci ho provato, ma non ci sono riuscito. Ieri sera sul tardi, ero attento a una lunga scrittura, proprio sulla guerra diffusa e pericolosamente aggravatasi nelle ultime ore per via di nuovi bombardamenti e delle successive minacce proveniente da altri pazzi, del tipo Erdogan, Hesbollah, iraniano.
La mia Tv accesa, si collega a un telegiornale, quasi inaspettatamente. Vengo investito dalle grida di una bambina. Sollevo gli occhi e vedo un adulto che trascina via da un funerale una dai capelli lunghi e biondi. Era disperata. Era la sorellina di uno dei tre bambini uccisi dal crollo di una parte di questi mostri di cemento che hanno imbottigliato migliaia di persone in quella bolgia di umanità negata, che è Scampia. Qui, di questa terra infuocata non dico aggiuntivamente della sua storia, della sociologia, anche criminale, che la accompagna. Non dico delle narrazioni, anche cinematografiche e letterarie, di quella terra di nessuno, nella quale si muove disinvoltamente il diavolo. E il male che assume tante forme. Non ne dico, perché non c’è anima viva che non sappia di questa parte di Napoli abbandonata anche da Dio, se Dio davvero si potesse occupare delle nostre negazioni del bene. Delle nostre cattiverie e dei nostri patti con quel potere disumano, per il quale la vita non vale nulla se non come miserevole prezzo sul mercato del denaro e della occupazione di sempre più ampi spazi in cui dovrebbero vivere le persone. E la Libertà. Degli spazi, che sono le città e le istituzioni, economia tra questi. E delle persone, che sono i padri e le madri, gli esseri umani in cammino verso il Progresso. Dinanzi alle tre bare bianche, che custodivano i corpi violati dei tre bambini di Scampia, uccisi da chi avrebbe dovuto proteggerli, l’indignazione si fa rabbia irrefrenabile. Senso di ribellione impotente. Dovere di fare, disarmato delle armi necessarie per fare. Paura per la guerra che si svolge nel nostro Paese. Paura che è dentro di noi. Paura che è in noi. Paura per quel che siamo diventati noi, folla indecifrabile quando si è in tanti sulle strade, sommatoria di figure anonime racchiuse negli egoismi che individualmente si muovono per scontrarsi quando entrano in contatto. Paura per quel noi, svuotato del senso di comunità. Quel noi che nega a sé stesso l’Io, che non è individuo, ma persona piena di dignità, creatività, diritti. E di quel senso del dovere, che è anima della Democrazia. Chi ha ucciso quei bambini, lo sappiamo bene pure noi di ogni parte d’Italia. Li ha uccisi, il nostro perdere molto del sentimento umano. Li ha uccisi l’indifferenza delle istituzioni, il distacco degli uomini e delle donne del potere. Li ha uccisi quella politica che litiga sulle cretinate e occupa il tempo solo per le carriere e gli stipendi sempre più alti di chi rappresenta il popolo ad ogni livello istituzionale. Li hanno uccisi quei governi delle promesse bugiarde, delle sfilate propagandistiche sulle miserie da essi stessi prodotte o alimentate. O nei funerali della povera gente, uccisa dalle violenze più assurde, della povertà e della immigrazione in particolare, quando però a quei funerali conviene andare. Infatti, ieri a Scampia, non è andato nessuno. Nessuno di quei potenti, che siedono in alto.
Nessuno di quei politici sempre davanti ai microfoni a cincischiare sul nulla o a gigionare con il proprio fanatismo e la loro vanità. Nessuno di quelli che sullo stesso luogo pochi mesi fa, e gli altri più lontani nel tempo, hanno promesso trasformazioni paradisiache e presenze loro costanti nel seguire i lavori di rigenerazione urbana. Presenze costanti per confermare la vicinanza delle istituzioni agli abitanti, affinché nutrano fiducia nel processo di liberazione di quei luoghi dalle mafie, dai mafiosi. E da ogni male che nasce e prospera nel degrado. Non c’era nessuno, ieri, a quei funerali. Forse, nemmeno trecento persone. Non c’era la gente. Il popolo di Napoli, non c’era. Gran parte dei trecento rappresentavano probabilmente le famiglie dei piccoli uccisi o quella unitaria del vicinato. Ho intravisto nelle prime file la fasce tricolore di qualche sindaco e, ne sono certo, quella del sindaco di Napoli. Ma c’era, però, quasi come opposizione fisica a quella vergogna, don Mimmo Battaglia, l’Arcivescovo di Napoli. Di lui non ho ascoltato le parole. Non ne avevo bisogno.
Le conoscevo già. Le ripete sempre con maggiore rigore e con più forza da quando ha messo piede a Napoli. Quelle di ieri hanno sicuramente percorso il sentiero tracciato nel suo primo discorso alla Città. Parole belle, profonde, significative. Cristiane del Vangelo. Francescane, dei due Santi Francesco. E di quel Francesco, che la santità la porta addosso e nel suo faticoso incerto camminare la trascina. Parole di denuncia del male. Coraggio di sostenerla. Anche nella coerenza morale della vita vissuta. E nei comportanti quotidianamente attuati. Parole di fiducia nell’uomo che possa combatterlo, il male, in chi lo procura. E in chi, redimendosi, lo annulla dentro di sé. Non ho sentito le parola di don Mimmo. No. Mi è bastato vederlo in viso. Sembrava invecchiato di vent’anni. Quel dolore profondo glielo letto negli occhi. Se ne sentissimo un poco di quello, anche noi, singolarmente intesi, probabilmente ci sentiremmo meno colpevoli. E più capaci di cambiare il mondo. Per costruire la Pace.
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