di FRANCO CIMINO
Oggi ricorre il quarantatreesimo anniversario del rapimento di Aldo Moro e della barbara uccisione della sua scorta. Pochi, mass media e istituzioni in particolare, l’hanno ricordato e pure velocemente dentro le comunicazioni e i notiziari non importanti. La nostra memoria va, invece, dritta a quel sedici marzo del millenovecentosettantotto, che ha dato inizio a una delle più grandi tragedie del nostro Paese e a quei famosi cinquantacinque giorni che lo tennero impietrito su un dolore rimasto acerbo e sospeso nell’inquietudine di trame ancora coperte.
Mi ricordo nitidamente tutto di quel giorno, iniziato alle nove del mattino: la notizia del giornale radio appresa in auto mentre mi recavo per le mie prime supplenze a scuola; la fermata a un bar della statale 106 per chiamare subito la scuola e comunicare la mia impossibilità di far lezione; il pianto che mi accompagnò per tutto il viaggio di ritorno fino alla sede provinciale della Democrazia Cristiana, (al secondo piano di galleria Mancuso a Catanzaro) di cui ero il delegato provinciale del Movimento Giovanile; le prime riunioni degli organi statutari per dirci cose che non avevano senso e tentare di organizzare qualcosa invece che avesse il senso di una partecipazione popolare la più larga e la più plurale; delegazione degli partiti( federazioni giovanili compresi) che vennero ad esprimerci la la loro solidarietà e a darci una mano, soprattutto il PCI, che aveva grandi esperienze e mezzi nell’organizzazione di manifestazioni di piazza; le telefonate continue con la sede centrale di piazza del Gesù, in Roma, con la linea che si prendeva a singhiozzo e le linee occupate per ore. E poi tanta gente e centinaia di democristiani sgomenti, spaventati, che arrivavano da tutta la provincia e con i lacrimino trattenuti meglio occhi arrossati.
Con loro tanti miei giovani amici, a chiedersi e a chiedermi “ che fare”, con un coraggio straordinario spinto dall’orgoglio per quel che eravamo e per quel che era il nostro partito, il più grande dei partiti democratici. Da dove avessero, ciascuno di loro, tirato fuori quelle bandiere bianche scudocrociate ancora non lo so, ma ogni nostro giovane ne aveva portata una; che ben sventolarono alla sera, intorno alle diciotto, nella vicina piazza Prefettura, dove, dal lungo balcone, al primo piano, del palazzo della Provincia, parlarono, nella manifestazione unitaria, i segretari provinciali dei partiti (allora si diceva dell’arco costituzionale). Immediatamente dopo poco, era già tardi di corsa, a casa mia , a Marina, dove mi aspettavano i miei genitori compresi del mio dolore, che in loro divenne doppio. E quel mio generoso papà che mi dava tutte le notizie apprese durante il pomeriggio dalla” televisione”- unica fonte d’informazione ad horas in quel tempo- alla quale rimase ininterrottamente attaccato. Infine, la stazione di Lamezia, per il primo treno della notte che , insieme a un gruppetto di miei giovanissimi amici( ricordo Pino Nano, per tutti), mi porto a Roma, dove, nella serata successiva, avremmo tenuto un corteo del Movimento Giovanile, presieduto da Marco Follini, che, al grido “ Moro è qui con tutta la DC”, si fermò sotto le finestre della segreteria nazionale dalle quali brevemente e sommessamente, da un megafono, parlò un Benigno Zaccagnini, l’indimenticabile segretario, amico anche personale di Moro, visibilmente provato. Quasi un bambino spaventato mi apparve quell’omone tenero e indifeso.
Ricordo, quindi, l’altro treno della notte. Quello del ritorno in Calabria e delle quarantott’ore sempre svegli e combattivi, con l’unico pasto frugale consumato in una delle più economiche trattorie vicino a Termini, allora una delle zone più “ periferiche” e degradate di Roma, sempre al buio ed esposta a paure e rischio, che noi non sentimmo forti com’eravamo di essere democristiani ed amici stretti stretti nell’abbraccio più forte. Quello della lotta contro la violenza, della difesa del partito così brutalmente aggredito, dell’amore trepidante per il nostro leader più rappresentativo, di cui non conoscevamo ancora le condizioni fisiche, né la sorte assegnatagli. L’abbraccio infine, della responsabilità che anche su noi giovani democristiani cadeva non come un peso, né come un’avversità sorprendente. Ma come un rinnovato impegno verso gli ideali che avevamo sposato.
Un nuovo giuramento di fedeltà alla democrazia, un nuovo atto d’amore per la Libertà, che da quel giorno più forte divennero tracce dell’unico cammino che ho inteso percorrere. E che percorrerò fino a quando resterò in piedi su quella strada, in cui si consumò il martirio di un uomo immenso e di cinque ragazzi che proteggendo la sua persona, sapevano bene che avrebbero dovuto proteggere il Paese democratico del quale, involontariamente se si vuole o forse no, divennero eroi. Di Moro e della sua fine, del bersaglio immobile che fu per tanti nemici suoi e dell’Italia democratica, interni ed internazionali, presto si saprà ufficialmente la verità già da molto tempo nota. Oggi, e sempre in questa data che ogni anno si rinnova, va ricordato quella strage e quel tentativo di mettere in ginocchio, per asservirla altrove, l’Italia, il sacrificio degli uomini della scorta, come di tutte le scorte cadute sui diversi campi di battaglia.
Va ricordato che la violenza nell’assurdo furia ideologica che l’accompagna, che sia voluta di colore rosso o di nero, è la peggiore delle vie che possono prendere i giovani oltre che la più vergognosa cattedra da cui si volesse ancora insegnarla, la violenza, come strumento di liberazione degli uomini. Oggi va ricordato come il passaggio obbligato all’unità del popolo intero dinnanzi a qualsiasi emergenza o “ guerra” che lo dovesse colpire. L’unità anche della politica attorno alle istituzioni, ciascuna forza mettendo completamente da parte gli interessi di partito, di fazione, di corporazioni o di classi e strati sociali. Ché dalle divisioni o dalle disgrazie nessuno può vincere, ovvero che da soli si può al massimo salire i gradini della propria abitazione, se non sono, tra l’altro, molti .
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