di FRANCO CIMINO
La prima notizia, da primissima pagina su tutti i canali d’informazione, è il ritrovamento di un bambino di pochi giorni nella “ culla della vita”, il sistema inventato molti anni fa dalla clinica Mangiagalli di Milano per consentire alle madri che non possono tenere il loro neonato di affidare in mani sicure quella vita da poco messa al mondo. Era da tanto che non si verificava, almeno nelle attenzioni dei mass media un evento del genere. Ancora una volta ci siamo commossi quasi tutti.
Eh sì, svanita ormai da tempo la partecipazione emotiva all’assalto russo vero l’Ucraina, perdute alla vista le immagini di bambini affamati, laceri e feriti, morti o disperatamente soli sul ciglio di una strada, dimenticate le immagini di intere città distrutte, di donne e uomini inermi sepolti sotto le macerie dei bombardamenti, e quelle delle lunghissime file di persone e famiglie, prive dei giovani padri mandati in guerra, che a piedi cercavano una via di salvezza, ovvero quelle case e quegli ospedali ancora solidi ma privi di acqua luce gas, e quelle scuole e università chiuse per inagibilità, consumata alla velocità della luce la commozione “lacrimata” per la strage di cento povericristi nel mare di Cutro, delusi per il pronto recupero della salute di Francesco( non ci ha dato neppure il tempo di prendere i fazzoletti) e stanchi e annoiati, ancorché divisi, per i continui bollettini medici sul rischio vitae di Silvio Berlusconi, questa notizia del bambino abbandonato, ritornata nuova e scandalosa, ci ha rifatto battere forte il cuore.
Una lacrimuccia anche e perché no? Siamo pure in maggioranza cristiani e cattolici e romani, con una buona minoranza laicamente umanista, umanitaria, e chi ne ha più ne metta. Si è commosso tantissimo perfino un uomo di scienza, notoriamente, in quanto tale, razionale e glaciale, il primario del reparto di neonatologia, che diffonde una “ commovente” richiesta alla madre del piccolo di utilizzare tutti i dieci giorni che la legge in questi casi concede per andare, con garanzia dell’anonimato,a riprendersi il figlio. E fin qui poteva andar bene, visto che la nostra commozione si è alzata di livello. E pure tanto. È bastato però che a fine frase aggiungesse che “ un bambino sta meglio tra le braccia della madre naturale”, che si è scatenata un’altra feroce polemica. Tutto secondo l’antica nostra tradizione. L’Italia che si è divisa pure sul Covid e le sue tragedie, dopo essere stata “ festosamente unita” per il solo breve tempo dei canti sui balconi, litiga anche su questo. “ Sono state offese le madri adottive e tutte le famiglie delle innumerevoli adozioni, che hanno cresciuto i figli nati fuori da loro più che gli stessi genitori naturali.” Questo, in sintesi, sostanzialmente, il pensiero steso sulla società del rancore nascente e delle divisioni permanenti. Se vi aggiungessimo una delle verità più forti dello stesso principio che la sostanzia, alla quale io personalmente credo molto, e cioè “ i figli sono di chi li cresce, non di chi li fa”, l’incontro di boxe tra il dramma e il nulla si chiuderebbe con un netto KO. Solo che questa volta a cadere tramortito sul tappeto non é una posizione, non è una fazione, un partito o una parte di certo ideologica. A cadere è quel bambino trovato nella culla sulla parete esterna dell’ospedale della più ricca Città d’Italia, la sua umanità. A cadere al tappeto con lui è la mamma che l’ha partorito e, poi, per evitare che le cadesse dalle braccia, come spesso è accaduto ad altre madri, lo ha affidato idealmente a un’altra mamma che se ne potesse prendere cura.
ante dure verbosità, tante brutte polemiche, tanta morbosa attenzione verso questo fatto di amara umanità, come se fosse il primo o l’ultimo e non invece, per fortuna questo con buon fine, uno dei circa tremila abbandoni di neonati che il nostro Paese registra in un anno. Curiosità, solo curiosità. E attenzione solo alla parole, certamente sbagliate nelle conclusioni, di un medico importante. Nessun sentimento verso quella madre, nessuna lacrima su quelle sue parole “ scritte al figlio” nella debole soeranza di farsi perdonare un giorno. E in quella ancora più debole di perdonarsi lei, atto che le risulterà purtroppo impossibile. Perché il proprio figlio non lo si lascia mai.
E mai lo si sarà lasciato anche quando la donna fosse costretta a privarsene. La madre è madre, sempre. Per questo chi non ha generato lo diventa nell’istante in cui quella creatura nata da altro ventre le scenderà tra le braccia, già da tempo tese. In avanti. E protese verso l’Alto. La madre è sempre madre, anche quando una donna non riuscirà a crescere un figlio, a tenere tra le braccia un bambino che figlio le sarebbe diventato. La madre è madre. Sempre. Per sempre. Il nostro pensiero vada, quindi, alla mamma di Enea, e alla donna eroica che l’ha partorito. Dedichiamoci in queste ore solo a loro due. All’Amore che li ha fatti madre e figlio per sempre. Al dolore della separazione. Un dolore che anche il bambino già sente e che manterrà per sempre nella nostalgia che sentirà di lei. Un dolore indicibile, straziante, che lei ha sentito mentre lo deponeva nella culla. Per questo solo momento, diamo loro i nomi dell’Amore più grande che l’Umanità abbia mai conosciuto. Chiamiamoli Gesù e Maria. Enea avrà presto un’altra mamma e un papà. Lo ameranno di un amore doppio, perché è amore grato. E per lo stesso motivo doppiamente saranno riamati. Enea e i suoi genitori saranno felici. Di una Felicità anch’essa grata. Grata a Maria, che ha avuto il coraggio di portare, chissà tra quali sofferenze e solitudini, alla vita un bambino.
E bello e buono. Bello e buono come Gesù. E l’ha fatto nascere. Per amore di madre.
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