di FRANCO CIMINO
"A ogni anniversario storico io mi pongo sempre la stessa domanda. Questa: “è passato poco o troppo tempo?”. Da qui, le altre. Queste:” Quanto ha inciso questo tempo sul cammino del tempo sociale e storico?” E ancora: “ quanto sulle nostre singole vite?” . E, ancora:” cosa quegli anni hanno lasciato sul tempo passato, segnato sul tempo odierno, e lasciato all’avvenire?” E, infine:” come si conta il tempo? Quel tempo? Quegli anni che lo rappresentano?” Da quel tragico sedici marzo del millenovecentosettantotto, sequestro in pieno giorno, otto e cinquanta del mattino, del sequestro di Aldo e della strage della sua scorta, sono passati quarantacinque anni. “ Sono pochi o sono molti, questi anni?” Eccole le mie risposte. “Sono pochi per una società in eterno movimento, veloce o lento che sia. Sono molti per il giogo che muove la Politica, trasformatori o restauratori che l’abbiano utilizzata. Sono tantissimi nella vita delle persone. Per coloro che hanno vissuto questi anni. Specialmente, i testimoni di quel sedici marzo a seguire. Lo sono anche per i milioni di italiani che sono nati dopo quel “ tragico” anno. Nel mezzo di queste due esistenze un ruolo importante lo gioca la memoria. Per ambedue la stessa duplice memoria, quella collettiva e quella individuale. Per la generazione anni cinquanta a seguire, cosa è stato trattenuto di quel giorno e dei cinquantacinque che lo hanno seguito. Per i post “settantottini”, cosa hanno appreso di quella tragedia, quale coscienza politica hanno formato in loro e nella nuova società. Per tutti, la domanda retorica. Questa:” cosa ha lasciato nel Paese quel sedici marzo? Quel sangue dei cinque uomini della scorta, uomini belli e innocenti, generosi servitori dello Stato democratico, per il quale democratico non è aggettivo, ma sostantivo, cosa ha lavato di quella strada lastricata di dolori, di feroci contrapposizioni partitiche, convergenti diversi terrorismi, di ombre di trame golpiste sanguinarie e stragiste? E quel nove maggio seguente, con la barbara uccisione di Aldo Moro, cosa ha lasciato quale segnale positivo alla società italiana? E, non per finire ché le domande sono tante, cosa ne è stato della enorme fatica del leader democristiano e, soprattutto, cosa è rimasto del suo pensiero e del suo insegnamento politico? I reduci di quel tempo, i fortunati ancora in vita, cosa ricordano di quest’Uomo con la maiuscola, tanto ricco di umanità. Straordinariamente ricco di fede. Di fede religiosa verso il suo Dio, di fede laica per la Libertà, di fede umana verso i valori fondanti la fratellanza fra gli esseri umani, in essi l’amicizia e la famiglia. Di fede incondizionata per quella Costituzioni che lui, fra i più importanti costituenti, contribuì a scrivere, trovando in essa e imprimendo ad essa quel principio straordinario dal quale non si distaccò mai. E, cioè, il dovere assoluto di vivere la Politica anche quale luogo del confronto attivo per il dialogo fra parti diverse e in competizione. Addirittura, contrapposte. Dialogo instancabile che portasse a decisioni condivise, le più larghe possibili, perché l’interesse generale, non solo è il provvisorio punto d’approdo della Politica. È, soprattutto, il momento primo e il fine dell’azione politica. Quello che supera e poi, attraverso la più sana dialettica, comprende, l’interesse del singolo partito. Interesse legittimo, perché portatore di esigenze e problematiche particolari e necessarie a quel pluralismo sociale che è anche motore dell’economia “ liberal-popolari”, secondo un termine che forse Aldo Moro oggi utilizzerebbe quale sintesi lessicale di un articolato suo filosofare intorno alle grandi questioni delle democrazie moderne. Nel quale c’era un altro suo assillo costante. È quello per il quale, dinnanzi alle vicende delle democrazie sudamericane e della crisi economica mondiale, che stava distruggendo le deboli economie occidentali (come la nostra allora, divorate dall’inflazione a due cifre, oscillanti fino al venti per cento), aveva rafforzato il suo impegno politico e la strategia per sostenerlo con successo. Era giunto il tempo di accelerare quel processo della democrazia compiuta che avrebbe da una parte salvato il Paese dalla rovina economica, dall’altra, dai ritorni delle trame golpiste, da tempo in agguato sotterraneo, e, infine, per completare quel percorso che la Costituzione voleva giungesse al porto sicuro della democrazia. Quella piena, garantita dalla politica della regolare alternanza al governo del Paese. Quell’assillo si nutriva del desiderio più forte di ogni Democrazia, la partecipazione, la più larga e profonda, totale oserei dire. La partecipazione della gente, fattasi popolo, alla vita politica e istituzionale del Paese. Da tempo Aldo Moro, sentiva la necessità che la Politica riaprisse le finestre per fare “ entrare aria nuova” e l’ansia di quella nuova partecipazione che saliva dalla società. In particolare, dal mondo giovanile, come le incomprese lotte del sessantotto avevano chiaramente rivendicato. Attenzione, inoltre per le istituzioni, architravi dello Stato democratico. Rivitalizzarle significava, per lo statista europeo, nutrirla di un altro elemento oltre la partecipazione, la moralizzazione della vita pubblica. E quella dei partiti, strumenti essenziali alla Democrazia. Istituzioni da rivitalizzare. E partiti da rinnovare. Profondamente non modificandosi. Sembra una contraddizione, questa, un gioco dialettico di una personalità possente. Ovvero, per i suoi denigratori, l’arte sofista del dire e non dire. Dire ciò che non si vuol dire, invece, per i suoi estimatori. Famosa la frase rivolta al suo partito molti anni prima di via Fani:” la Democrazia Cristiana sia alternativa a se stessa”. Non era, come fu inizialmente intesa, la riaffermazione della sua inamovibilità dal potere stante la fissità del Partito Comunista Italiano al ruolo della opposizione. Era, invece, la più grande delle lezioni che si potesse rivolgere alle forze politiche. E alla sua, la più bella sia pure imperfetta. Ovvero, per “morotizzare” il mio dire, la forza politica perfetta nella sua imperfezione. Tuttavia, era il monito più severo, che ha avuto la sua diretta conseguenza sul futuro del suo stesso partito, che, troppo concentrato sulle logiche di potere, non l’ha recepita. Tangentopoli, prima ancora che il terrorismo, la distruzione dei partiti democratici, la sparizione anche di quel partito che sembrava essere sopravvissuto allo tsunami distruttivo, il PCI, la fine della cosiddetta prima repubblica e l’improvvisata nascita della cosiddetta seconda e poi la terza, la costruzione di partiti persona, il varo di una legge elettorale che li consolidasse, la formazione su di essi di una falsa nuova cultura concepibile con l’abbinamento “personalizzazione della politica e appropriazione personale delle istituzioni”, la riduzione degli spazi democratici, il culto della decisione a scapito della discussione, il prevalere dell’esecutivo sulle assemblee elettive sempre più ridotte nel numero, sono le conseguenze di quel mancato invito al cambiamento del partiti. L’irrisolta questione morale, vieppiù aggravatasi negli ultimi venticinque anni, sono la diretta emanazione, anzi il lascito di quelle finestre rimaste chiuse al vento nuovo che spirava nel Paese già da tempo. L’interruzione del percorso post resistenziale e il mancato pieno svolgimento dei temi costituzionali, risiedono in gran parte in quel Moro inascoltato disegnatore della Democrazia piena. Lo stessa “ rivoluzione” berlusconiana, la forza che ha stravolto il vecchio sistema rinnovando senza innovare, sostituendo personale politico senza cambiare, modificando la politica senza modificare il potere che la governa, così come il ridimensionare le istituzioni per il prevalere su di esse delle persone, il liberalizzare l’economia senza difendere l’interclassismo che è stato elemento centrale dell’originale sistema Italia, dicotomizzare la società italiana cancellando la classe media su cui si fondava il dinamismo democratico dell’economia e, di fatto, realizzare una società duale, con i ricchi pochi da una parte e i poveri, tantissimi, dall’altra, la riduzione del prestigio e della forza dei sindacati, la cancellazione dei “ comunisti” storici dalla vita politica e lo sdoganamento della destra della vecchia tradizione ideologia senza un dibattito ampio e approfondito che ne favorisse il cambiamento consapevole al loro interno, tutto questo viene da quel mai lontano millenovecentosettanto, dai cinquantacinque giorni drammatici a cavallo della primavera più dolorosa della storia recente. Di più, dai nodi ancora stretti su quelle pagine drammatiche, che non consentono ancora di fare piena chiarezza sulla morte della personalità politica più importante dell’Europa. E della quale, per evitare che se ne parli, si arriva a coprire di silenzio quella figura politica alta e profonda, il politico cattolico che ha fatto della laicità una sorta di missione, del senso profondo della Libertà un valore inalienabile, e della sua stessa vita una risorsa per l’Italia democratica. Quella vita che Aldo Moro sapeva bene essere costantemente in pericolo e per difendere la quale non aveva chiesto misure di protezione eccezionali. Quella vita che dalla prigione delle Brigate Rosse egli ha cercato di salvare non per un comprensibile istinto di conservazione o per un egoistico interesse personale e familiare. E neppure per contrastare, vivendo, il pericolo che avrebbe corso, come egli stesso ha affermato in una delle sue ultime missive, il nostro Paese, e la stessa Europa nel mondo, se fosse stato assassinato per mano dei brigatisti e per “ interesse” ben manovrato esterno( dalle BR e dai confini nazionali). Moro, il filosofo, il docente, il costituzionalista, ha tentato di conservarsi in vita per difendere la Vita, essenza della Democrazia, spirito della Libertà, mezzo primo e fine ultimo della Costituzione, che pone al centro il valore assoluto della Persona. Un’ultima domanda, anzi due:” C’è qualcuno che conosce o si ricorda Aldo Moro? C’è una scuola che oggi ne abbia parlato?” No, no, non mi riferisco a quel povero corpo che genera pietà in quella foto del portabagagli della Renault rossa, ma dell’uomo della Pace, del politico illuminato, del pensatore acuto, del visionario del mondo giusto e dell’uomo bello che lo rende possibile. Passerà anche questo sedici marzo. E poi il nove maggio. E tanti altri ne passeranno fino alla dimenticanza assoluta. Dolore della storia, che si aggiunge al dolore delle persone sensibili. Dolore per la Democrazia".
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