di FRANCO CIMINO
Joe Biden ha rinunciato alla candidatura per il rinnovo del suo mandato presidenziale. C’è voluto tempo. E molto. C’è voluto tanta fatica. E molto. Ma alla fine ce l’ha fatta lui. A trovare la forza. A trovare il coraggio. La forza di lasciare la carica più importante che vi sia al mondo, Vescovo di Roma compreso. Il coraggio di capire che il suo tempo era già passato. Ed anche per “ colpa” sua. Dico colpa, perché in una società che viaggia alla velocità della luce, nella quale la lotta è sempre più un combattimento e la gara è maggiormente decisa dalla forza fisica, e il rinnovamento è concepito più come giovanilismo che non come cultura del cambiamento, essere vecchi è diventato una colpa. Quasi un crimine se all’età avanzata si accompagna un qualche cedimento psico-fisico. Per colpo sua, e della sua ingenuità, favorita dalla stupidità del suo team, nell’accettare, a corsa non ancora iniziata, quel drammatico duello televisivo. Che ha segnato irrimediabilmente la sua fine politica. E, cosa più umiliante, questa triste
uscita di scena. Come una liberazione da un pericolo addirittura superiore a quello che per il mondo e per l’America rappresenta Donald Trump. Non c’era più tempo. E la decisione è arrivata che era quasi scaduto. Joe ha tentato con tutte le residue forze di resistere. Ambizione e orgoglio, attaccamento al potere anche, ma di più l’ambizione e l’orgoglio della potente moglie lo trattenevano lungamente in quella decisione. Anch’io ho temuto per tutto la giornata di domenica che non si ritirasse. Poi, l’ultima cessione di solidarietà, quella dei Clinton, o altra ancora di segreto, l’ha convinto. D’altronde, sarebbe stato assurdo tentare, nell’isolamento totale, la più grande guerra, anche per un combattente come lui che le sue guerre, tranne quella per la vita del figlio, le ha vinte tutte. Al punto in cui era arrivato il tira e molla più drammatico della storia americana, l’interesse non era più quello di un uomo pur nobile e dignitoso, che dopo sessant’anni quasi di piena dedizione alla politica e al suo Paese, non gli è riuscito di essere un grande presidente. L’interesse in campo era quello del partito Democratico esposto alla più pesante sconfitta della sua storia. L’interesse in campo era quello degli Stati Uniti Uniti e del suo ruolo nel mondo. L’interesse in campo era il mondo stesso dopo il voto di novembre. Tutti questi interessi si trasferivano dalle sue mani a quelle del quasi certo nuovo presidente, che i sondaggi davano di gran lunga favorito nello scontro con lui.
L’America democratica e il mondo che vuol restare libero tirano un sospiro di sollievo. Onore e bandiera al vento del pennone più alto al presidente Biden, che con la sua decisione apre pure la domanda che gli esseri normali hanno paura di porre. Riguarda il caso, il destino o la fortuna che cade all’improvviso sulla vita di alcuni. La rinuncia alla candidatura del presidente uscente farà la fortuna di una donna, che, probabilmente, candidata alla più alta carica non lo sarebbe stata mai. Kamala Herris non è stata una grande vicepresidente. E non avrebbe potuto esserlo in assenza di un grande presidente. Che, tra l’altro, sorprendentemente, l’ha tenuta ai margini della politica della Casa Bianca. Perché ciò sia avvenuto, dopo l’entusiasmo generato in occasione della vittoria di quattro anni fa, è una domanda che nessuno si è posto, anche nella pubblica opinione americana sempre attenta e pure pettegola. Durante questa lunga assenza dal proscenio Kamala non si è attratta le più larghe simpatie degli elettori e della classe dirigente democratica. Anzi, le voci la davano per essere molto avversata. Una specie di pulcino nero che non sapeva più neppure che farsene della sua ottima carriera professionale e della sua enorme cultura giuridica. Neanche la storia personale e familiare, che quattro anni fa ha portato emozioni e consensi al partito, sembrava potesse rafforzarla. Ma oggi il “pulcino nero” è diventato un leone più bello e più elegante e più forte. E lo è anche per il suo colore, per la sua età, per la sua storia politica, per il suo stile istituzionale, per il suo essere Donna. Donna vera. Ancora non è ufficiale, ancora molte sono le resistenze, ancora troppi sono i giochetti dei notabili, ma la sua candidatura è più certa di quanto non si possa immaginare. Il partito Democratico non ha oggi alternative praticabili e neppure il tempo di cercarle. Se dopo le pressioni fatte ne confronti di Biden perdesse tempo e si dividesse sulle scelta del nuovo candidato, farebbe una brutta figura planetaria e consumerebbe un atto grave oltre che il regalo più grande al “ nemico”.
Tanto sarebbe valso lasciare “ perdere”l’attuale presidente. Almeno, si sarebbe assistito allo scontro più agguerrito fra due “ anziani”. La partita che si gioca oggi è duplice per i democratici: perdere male o perdere bene. La prima sconfitta aprirebbe un’era di potere del partito repubblicano, che con la Casa Bianca prenderebbe nelle elezioni successive la stragrande maggioranza della Camera e del Senato. La seconda, lascerebbe ai democratici la possibilità di conquistare la maggioranza nel Parlamento, ridimensionando il ruolo e la forza del trampismo e preparare così la successione immediata. Detto questo, io non penso che sia certa la sconfitta dell’attuale vicepresidente. Tre mesi sono pochi, è vero, per affrontare una campagna elettorale così dura. Ma gli equivalenti cento giorni non lo sono per valorizzare le qualità di Kamala. Se ci sapessero lavorare sono quelli che possono battere Trump. Sono qualità che hanno pochi almeno nel numero che possiede la Harris. Quali sono? Kamala, rispetto a Trump è più giovane di vent’anni. Il dato anagrafico ribalta la posizione strumentale adottata dal tycoon, che attaccava il suo rivale come inaffidabile perché vecchio, confuso, inabile al ruolo. Addirittura, sbeffeggiandolo nel modo più volgare e offensivo della dignità umana. Kamala, ha esperienza notevole e attrezzata anche di quella energia e vivacità non priva di cattiveria, che ridimensionerebbe la presunzione di forza incontrastabile di Donald, per chiamarlo con la confidenza del suo sedicente amico nel governo italiano. La candidata democratica possiede un’oratoria robusta e una capacità dialettica tanto efficace da consentirle di vincere tutti i pubblici confronti, mettendo KO il suo rivale, che si ritiene invincibile su quel ring. La signora dal sorriso sempre aperto, ha una storia personale e familiare non solo affascinanti, ma anche limpide.
E, soprattutto, prive di scheletri nell’armadio. Anche quello della camera da letto, dove, invece, il suo rivale, ne nasconde ancora molti. Ciò le consentirà, nell’America ancora puritana, di reinserire nella battaglia elettorale il tema quasi dimenticato della questione morale. Il profilo “tendenzialmente criminale e di cittadino già condannato in alcuni processi e di quelli che lo attendono, di Donald, come viene affermato dagli avversari, rientrerà dalla porta della campagna elettorale, occupando uno spazio non minore. Una prima battuta a caldo resa ieri dalla Harris( “conosco bene il mio avversario, da magistrato figure come la sua mi sono ben note”) ne rappresenta la spia luminosa. Kamala è donna di colore, un’americana di rara completezza, possedendo nel suo dna e nella sua cittadinanza, tutti gli elementi costitutivi del popolo americano. È nata in territorio statunitense(Oakland) da madre indiana e padre di origine giamaicana, affermatisi nel mondo scientifico e accademico. Ha studiato intensamente conseguendo, con le proprie capacità e grandi sacrifici, tutti i successi conseguiti nella vita e nella professione. In politica viene dalla gavetta e dalle battaglie sui diritti civili. Pur non avendo generato, è madre attenta dei due figli avuti dal marito nel precedente matrimonio, costituendo insieme una famiglia considerata esemplare per l’amore che vi regna. Kamala è Donna, con la maiuscola. Lo è in un’America ormai pronta a farsi governare da una Donna.
La curiosità di vederla alla Casa Bianca, la prima donna e di colore presidente, accrescerebbe la simpatia degli elettori. Si aggiunga che è democratica convinta. Dotata di un forte spirito di nazione e di un alto senso delle istituzioni, rappresenta una vera garanzia rispetto a un personaggio indisciplinato, privo di cultura politica e di senso dello Stato, di responsabilità personale e di generosità verso la Nazione. Questa netta differenza riporterà all’attenzione del mondo quelle tragiche immagini di quattro anni addietro quando, incitando i suoi più rozzi e inferociti sostenitori, Trump si è rivelato per la personalità instabile che è. E cioè, illiberale, violentemente tesa a modificare nei fatti l’anima democratica del più grande paese democratico del pianeta. Una personalità sprezzante delle regole, ignorante dei meccanismi di funzionamento degli States, completamente ignaro delle problematiche internazionali e lontanissimo non solo dalla diplomazia, ma anche dai problemi reali dell’umanità. A partire da quei due più stringenti, la povertà e la tutela dell’ambiente. Personalità complessa, quella del capo dei repubblicani, egocentrica, eccentrica, narcisistica, mette sé stesso al di sopra di tutto e di tutti. “ Prima l’America”, lo slogan della sua ultima campagna elettorale oggi si legge esattamente in “ prima di tutto io, Donald. Io sono l’America.” Fa venire i brividi anche oltreoceano. Mai come questa volta le elezioni negli USA riguardano tutto il mondo. Questo odierno, sotto il fuoco di feroci guerre, trema all’idea che le superpotenze possano vedere Putin e Trump stringersi la mano e camminare insieme sulle rovine fumanti. No, il due novembre, ormai prossimo, vincerà Kamala Harris, la Donna democratica di colore. La prima presidente che porterà definitivamente le donne al comando della politica. E a liberare pienamente sé stesse e il pianeta. Vedrete, sarà così. A meno di delusioni future, non impossibili.
Franco Cimino
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