di FRANCO CIMINO
Spazio e tempo non sono mai indipendenti dall’agire umano. Al loro interno si muove una risorsa che li sostanzia, di volta in volta definendoli. È la cultura. La cultura non nasce dal nulla. È fatta di principi e valori, di storia e tradizioni, religiosità e credenze varie. È fatta anche da ciò che l’uomo materialmente crea intorno a lui, quindi anche le strutture e le infrastrutture. Nel caso che da cinque giorni è sotto i riflettori della cronaca e della emotività collettiva, lo spazio ha tre luoghi e un tempo solo. Poi altri luoghi sottostanti e altri tempi cronologici. E, ancora, luoghi in prolungamento da quelli. I tre luoghi sono Colleferro, Artena, Paliano. Distano tra loro una manciata di minuti. Colleferro è un piccolo comune di solo ventiduemila abitanti. Ha quasi tutto, per cui attrae molta gente dai paesi più piccoli. Paesi di poche strade, poche anime, una piazza e una chiesa sola. Come Artena e Paliano. Nel primo luogo, il più attrattivo, alle tre di un mattino che resiste alla notte della bella gioventù, un ragazzo di vent’anni, Willy, viene barbaramente assassinato da un commando “ paramilitare” di un non precisato ancora numero di soldati dall’armatura robusta. Quanti sono? Quattro? Sei? Un esercito. Picchiano selvaggiamente quel ragazzo esile, disarmato, che non sapeva di trovarsi in guerra, lui che di pace parlava, con spirito di pace operava, con il desiderio di pace adornava i suoi sogni. Tutt’attorno, una piccola folla. Muta, attonita, impaurita. Forse, anche incosciente se non indifferente. Quanti erano in quella folla? Sette? Dieci? O forse di più, visto che l’agguato è avvenuto in una piazzetta centrale per quanto nuda e disadorna, cioè brutta? Chi lo sa e chi lo potrà mai sapere, nessuno parla. Chi sa anche quanto si sia speso l’amico della vittima, che dice di essere intervenuto in sua difesa. Si sa solo che dalla vicinissima caserma, dopo l’esecuzione, sia giunto un carabiniere graduato e che da quel momento siano passati altri trenta minuti prima che venisse chiamato il 118, per assistere ormai un cadavere irriconoscibile. Artena è il piccolo paese (non troppo con i suoi dodicimila abitanti), dei due fratelli maggiormente accusati del vile attacco. C’è poco o nulla lì, neppure una discoteca o la palestra di arti marziali in cui i due ragazzi si “ formavano”, modellando il corpo in modo inversamente proporzionale alla mente
. Paliano, che vi è distante venti chilometri è più piccolo. Ha solo ottomila abitanti e un territorio più breve. È il paese dove Willy, la cui famiglia, tutta di ottime persone, si è insediata dopo aver lasciato la bellissima ma poverissima Capoverde, viveva. Willy era più italiano degli italiani, non che questo conti in alcun caso. Faceva, però, tenerezza, identitaria quasi, quel suo amare il calcio e follemente la Roma, e quella sua adorazione “mistica” per Francesco Totti. Per questo suonano male quelle parole del telegiornale quando, quasi strattonandoti nella emozione più profonda, dicono “ i fratelli Bianchi”...Bianchi come sostantivo o come cognome? Perché se la vile aggressione fosse avvenuta anche per il motivo che finora resta fuori dalle incriminazioni formali, cioè la supremazia del colore della pelle, ovvero la semplice distinzione tra il nazionale e il forestiero, quella barbara uccisione assumerebbe un significato ancora più grave. Lo raddoppierebbe, ammesso che si possa estendere il concetto della estrema efferatezza, della insuperabile follia. Dell’infinito dolore. Ma restiamo ai luoghi, i tre vicini a Roma, la Città del “tutto è possibile” , così vicina eppure, per quelle periferie, tanto lontana. Colleferro, Arzana, Palumbo, sono paesi di piccole dimensioni, perciò meno dispersivi, più controllabili e nei quali quel conoscersi tutti da vicino agisce come una sorta di controllore sociale e di sostegno, una famiglia con l’altra, nelle difficoltà, compresa quella di crescere i figli. Tuttavia, è accaduto ciò che solo il male, la distorsione del vivere e l’alterazione del concetto di vita, può causare. Per compiersi quel male si serve di due elementi correlati. Il primo, la perdita progressiva di valori fondamentali, che derivano dalla legge civile( la Costituzione)e dalla legge morale( etica laica e credo religioso). Il secondo, la fragilità dell’individuo, che, nello svuotamento dell’essere e nel vuoto sociale, si trova in possesso solo del suo corpo. E su di esso punta per sentirsi( sentire se stesso) e sentirsi vivo. Siccome la solitudine lo spaventa, egli cerca una qualche relazione sociale attraverso la forza fisica, che cura e accresce nelle varie palestre e dopo lunghissime ore trascorse nel loro troppo chiuso interno. Chiuso al mondo reale. E però, la sola forza fisica non basta per imporsi agli altri, farsi riconoscere come temibile. Si sa, purtroppo, che in questa triste contemporaneità, la forza, il prepotere e l’arroganza di un qualsiasi potere mosso contro gli indifesi, genera paura e rispetto. Ma i soggetti deboli imbottigliati nei loro corpi mastodontici, hanno comunque paura. Una paura matta di star soli.
E, allora, si rifugia nel branco, quel disordinato insieme di disperati che agisce(droga e alcool magari come rinforzo), prima ancora di scatenarsi con i deboli e gli indifesi, come scarico della paura ed esaltazione di un sé di cartapesta. Il branco assorbe le individuali debolezze e la propria vigliaccheria, ti fa sentire potente, decisore del destino dei solitari e dei deboli. Giustiziere e ordinatore, giudice della propria legge su cosa è il bene e cosa il male. E di più, procura quella sensazione, che fa impazzire l’adrenalina, di vedere negli occhi dell’aggredito quella paura matta che, quando è solo, il vigliacco sente dentro se stesso. Infatti, i vigliacchi si vedono anche dopo, a missione compiuta ma scoperta e perseguita, quando se la fanno sotto davanti agli inquirenti e tentano di scaricare vicendevolmente la responsabilità dell’atto miserabile. “ Non sono stato io, è stato lui “oppure “non so chi ha colpito per far male” E il branco si scioglie come gelato tra le mani tremanti. Se è già stato detto dal branco di Colleferro o, se detta, sia stata ritrattata, non so, ma quando le indagini si faranno stringenti e le prove più documentabili, anche in questa occasione, nelle aule di Giustizia risuonerà una eco antica, strumentale alla riduzione della pena per l’attenuazione del reato da omicidio volontario in preterintenzionale. “ Non volevamo ucciderlo”, questa frase risuonerà. E c’è da crederci, perché nella loro ideologia della violenza e della forza bruta che la applica, c’è sempre e solo l’intenzione di dargli una lezione “ a quello lì. Una lezione che serva a tutti perché imparino bene chi comanda in quel luogo di vacantezza piena. Un po’ come a riprendere quel tragico” colpirne uno per colpirne cento”, che l’Italia ha tristemente conosciuto. L’assassinio di Colleferro tra poco diventerà un gioco giurisprudenziale, una bella casetta per avvocati “ eccellenti”. Quelli che sanno “ fiorettare” sulla differenza tra volontario e preterintenzionale, ovvero confondere al massimo gli indizi e le prove affinché non risulti chiaro chi sia stato effettivamente a sferrare il colpo mortale contro il ragazzo che sognava pure di fare il cuoco di professione. Ci vorrà un buon giudice per fondere in sentenza l’asserita preterintenzionalità in volontarietà, non solo perché aver continuato a colpire un essere fragile quand’era a terra e morente significa consapevolezza di procurargli la morte. Ma anche perché la forza brutale del branco e l’utilizzo appieno delle armi in possesso di ciascun suo componente( i muscoli e la tecnica delle arti marziali) esprimono già, se impiegati, la volontà di uccidere, per giunta massacrando. La morte del giovane italiano di Capoverde è, però, una scena criminosa già vista. Tutte le analoghe precedenti, dopo i rapidi giorni della indignazione e della facile lacrima collettiva, le abbiamo dimenticate presto. E non abbiamo imparato nulla. Non impariamo mai. Continuiamo a fare la stessa vita che ci accomuna in un solo corpo sociale debole, la società che ha smarrito i suoi punti di riferimento principali. Una società nella quale la scuola e la famiglia scontano due debolezze sullo stesso terreno, quello della formazione dei giovani. Il resto lo fa la politica con quella crescente carica di aggressività conseguente al progressivo calo di tensione ideale e alla perdita del senso dell’autorità e delle istituzioni, che all’esterno, e nel distacco con la gente, si trasforma in emulativa aggressività. La violenza, pertanto, è fra noi, cammina con noi.
L’odio verso i diversi, i neri e gli immigrati, è diventato altro: odio contro il diverso da noi, il debole, il disabile. Il povero. Addirittura questi di più, perché temiamo di diventare come lui o che lui ci consumi risorse per essere “ mantenuto”. Odiamo tutto ciò che in fondo ci rassomiglia. O che viviamo dentro senza averne piena consapevolezza. A volta mi viene da pensare, soffrendone, che tutta la commozione che ci travolge nelle morti tragiche e violente, specialmente dei nostri ragazzi, sia anche una sorta di transfert della nostra subcoscienza, o di sublimazione del nostro senso di colpa. Willy, che non voleva essere eroe, come tale lo stiamo trattando. I suoi genitori che non volevano essere maestri di bontà, come tali li stiamo vedendo. Quella famiglia che non voleva andare in scena, l’abbiamo portata di peso sul palcoscenico nazionale ad “ esibire” un dolore( quanto composto e civile, il loro!) che esorcizza il nostro per lo scampato pericoli dei nostri figli. Duemila persona vestite di bianco alla fiaccola del venerdì sera. Molte di più, con i vescovi a celebrare e il presidente del Consiglio a presenziare, ieri, sabato, ai funerali. Lo spettacolo adesso è terminato. Domani lo avremo già dimenticato. Lo spettacolo certo. Quella folla, certamente. Dimenticheremo più rapidamente Willi, il suo sorriso delle foto, la sua famiglia. Il dolore degli altri non lo sopportiamo. Ci fa più paura della violenza.
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