di FRANCO CIMINO
Ci siamo visti ieri sera, sabato. Al Politeama. Come sempre in ogni rappresentazione in questo bellissimo teatro, che fu da sempre anche il suo. Il solito spazio, come da appuntamento. Quello elegante che porta al guardaroba. Gli altri incontri, come da appuntamento, al Comunale, per la stessa ragione di cui sopra. Qualche altra volta al Supercinema. Per un bel film. Come da appuntamento. Ci si vedeva anche, quasi quotidianamente, come da appuntamento, sul Corso, per la consueta immancabile passeggiata serale. Il suo tempo dopo il lavoro lo passava prevalentemente così. Qui, a Catanzaro. E sempre accanto alla moglie. Talvolta anche con la figlia e la nipotina a rendere più completo il quadro familiare. Ma la moglie mai una volta che lo abbia lasciato solo. Li vedevi sempre insieme. Sempre attaccati, anche fisicamente. Sottobraccio o mano nella mano.
È Franco La Cava, il prof indimenticato e indimenticabile da alunni e colleghi, il dottore commercialista preparato e serio, maestro autentico di questa professione, l’uomo buono e gentile con tutti. Affabile e socievole pur dentro quella sua timidezza con la quale si scherniva anche quando ci si complimentava per i suoi acclarati meriti. Di lui si potrebbero dire due cose sinteticamente identificative. La prima: persona mite, aperta al dialogo dinamico. Quello disposto a riconoscere i propri errori e le ragioni degli altri, con una duttilità metodologica quasi, con la quale più che la sintesi, cercava, ottenendola, la mediazione. Che nel suo caso non era sempre asettico compromesso, ma la costruzione di una ragione altra, comprensiva delle parti migliori di quelle in contrasto. La seconda, l’aspetto, anche qui identificativo. Quasi fosse una divisa da non dismettere mai. Vestiva quasi sempre in giacca e cravatta, preferendo l’abito “ spezzato” , come usa dire da noi. Cioè pantaloni e giacca diverse ma nello stesso tono e stile. Capelli sempre a posto, raramente disordinati dal nostro vento e baffi pieni. Che, contrariamente da altre labbra, più largamente aprivano quel sorriso dolce e rassicurante. I colori si erano da lungo tempo fermati in quel bianco grigio che, su un viso pulito di fanciullo, rendevano ancor più ferma la sua età.
Franco era quasi tutto (poi c’era un universo dentro di lui imperscrutabile a chi non ne avesse l’accesso) in quello spazio e in quel percorso camminato tutt i giorni, con caldo e col freddo, piovesse o non. Lo spazio, Catanzaro, la Città tanto amata e servita. Gli spazi più piccoli erano lo studio del suo lavoro, il Politeama, il Comunale, il Supercinema e altri minori, dove si tengono rappresentazioni teatrali e incontri culturali. Lui, e sempre con la moglie, vi andava puntualmente. E per due motivi: rispondere sì alla Città che chiama( lo faccio anch’io da sempre); immergersi nel mare del sapere artistico-teatrale, alleggerendo l’animo da fatiche e preoccupazione per quel che di rilassante procura il teatro, con una opera o con un concerto di qualità.
Franco era dunque tre parole, Catanzaro, cultura-lavoro, famiglia. Una triade senza dialettica hegeliana, la cui risoluzione era nella parola più bella, Amore. È l’Amore l’energia che muoveva la vita di quest’uomo semplice e grande, umile e forte. Amore per ciò che più di ogni cosa si può amare, che si sintetizza in quella figura di donna che è sempre fonte del nostro essere amanti, la propria donna. La sua adorata moglie. È da questo Amore alto, per la Città, che è anche madre, e per la compagna per sempre, che è anche madre dei suoi figli, che Franco fece discendere la sua passione per la Politica, da lui sempre intesa come riflesso concreto dell’Amore. Fare Politica era per lui un atto di semplice servizio alla Comunità. Il suo era un servizio davvero speciale perché aggiungeva al donare gratuito ciò che più serve alla nostra politica incolta, la sensibilità culturale e la competenza. Qui mi fermo potendo dire molto ancora, non contenibile in uno spazio di giornale, pur se on line. Aggiungo solo questo elemento di ordine personale. Franco La Cava, ebbi il piacere di conoscere quando lui sostenitore di Rosario Olivo, che mi batté in quel ballottaggio aperto fino all’ultimo seggio del giugno duemilasei, sedette, come me, in Consiglio Comunale. Eravamo seduti difronte nel grande emiciclo dell’aula rossa. Lì egli si distinse per la competenza e serietà della sua azione, la correttezza dei rapporti umani, l’onestà del suo agire e il garbo con cui sosteneva le sue posizioni. E quelle del sindaco, quando le condivideva e senza mai obbedire a logiche di partito e a discipline di potere.
Era un uomo libero, un signore d’altri tempi. Ragionatore e mediatore, educato, equilibrato, rispettoso. Mai uno scontro o una lite con un avversario politico. E quando qualcuno dagli schieramenti contrapposti lite e scontro scatenavano egli era pronto a sederla. Operava con gentilezza per calmare gli animi. A volte, me lo ricordo bene, si faceva garante degli impegni che la maggioranza prendeva con le opposizioni quando queste sarebbero di certo prevalse sulla maggioranza spaccata o indebolita, non solo nei numeri, più di una volta dolendosi quando quella sua garanzia non veniva rispettata dal governo cittadino. Fu in quegli anni e da quegli scranni che nacque la nostra amicizia. Amicizia vera. Non esibita, non esposta ad alcuna convenienza, mai trattata sul piano dell’opportunismo. Un’amicizia vera, che non aveva bisogno di quella confidenza che ne caratterizza tante. Un’amicizia silenziosa e senza frequentazione, fatta solo di rapidi incontri in quei luoghi dell’Amore. Un’amicizia educante, per la quale attenderò l’altra vita per poterlo ringraziare come essa merita.
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