Franco Pino: storia criminis, automatismi giudiziari e il pregiudizio della pubblica esposizione

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L'avvocato Maria Claudia Conidi
  12 settembre 2025 14:06

di MARIA CLAUDIA CONIDI RIDOLA

La storia criminale di Franco Pino, così come ricostruita nel corso di indagini e processi degli anni Ottanta e Novanta, rappresenta uno spaccato significativo della criminalità organizzata a Cosenza. Figura di vertice, Pino è stato protagonista di una lunga sequenza di delitti, estorsioni, rapine ed episodi di sangue che segnarono profondamente la città. Tra questi, il più drammatico resta il duplice omicidio di Marcello Gigliotti e Francesco Lenti, consumato nel febbraio del 1986, caratterizzato da una ferocia che colpì l’opinione pubblica e sancì un momento cruciale nel controllo mafioso del territorio. La sua parabola fu segnata anche da rapporti con la cosiddetta “zona grigia”, quell’area di contiguità tra criminalità, politica ed economia che ha reso più complessa la lettura delle dinamiche criminali cosentine.

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Nel 1995 arrivò la scelta di collaborare con la giustizia: una decisione radicale che segnò la rottura definitiva con l’organizzazione e che permise di consegnare un contributo determinante alle indagini e ai processi, con dichiarazioni rese in forma unitaria e capaci di ricostruire tanto la sua vicenda personale quanto l’intero contesto mafioso in cui era inserito. Questa collaborazione ha avuto costi elevatissimi: la perdita di ogni radicamento sociale, il rischio per la propria vita e per quella dei familiari, anni di carcere e isolamento. Oggi, tuttavia, la sua vicenda giudiziaria si misura con un paradosso. La condanna per il duplice omicidio Lenti-Gigliotti, trattata come episodio isolato, pesa come un macigno sulla sua libertà senza essere inserita nel quadro unitario della storia criminis già valutata nei processi. Non si tratta di una scelta discrezionale dello Stato, ma del risultato di automatismi giudiziari relativi all’applicazione e all’esecutività della pena, che nella loro rigidità finiscono per spezzare la coerenza di una vicenda narrata e giudicata nella sua interezza. Così si producono effetti distorti: da un lato, si ostacola una valutazione proporzionata delle pene rispetto al percorso complessivo; dall’altro, si mette in discussione la possibilità di accedere a benefici penitenziari che sono strumenti fondamentali per garantire un vero reinserimento al collaboratore di giustizia.

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A questo si aggiunge un pregiudizio ulteriore e non meno rilevante: la pubblica esposizione della vicenda personale e dell’immagine di Franco Pino, rilanciata a livello nazionale con fotografie e dettagli, ha inciso duramente sulla vita del nucleo familiare. Un collaboratore di giustizia trova infatti nella riservatezza e nella protezione la condizione necessaria per ricostruire una nuova esistenza, ma in questo caso l’improvvisa diffusione mediatica ha creato una destabilizzazione profonda, compromettendo la serenità e la sicurezza di una vita che si era faticosamente riassestata nell’alveo del sistema protettivo. Non si tratta di chiedere indulgenza o di negare responsabilità, ma di riaffermare un principio di coerenza ed equità: la pena deve rispecchiare l’unitarietà della vicenda criminale e la protezione deve essere reale, non incrinata da automatismi o esposizioni che minano la fiducia nel patto tra collaboratore e istituzioni. Il caso di Franco Pino, che mi pregio di rappresentare e difendere, mostra come la rigidità di certi meccanismi e la fragilità delle tutele possano compromettere la credibilità stessa del sistema dei collaboratori di giustizia, che per restare efficace deve garantire giustizia, proporzionalità e sicurezza a chi ha avuto il coraggio di rompere con il passato.

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