Giallo-verde o giallo-rosso, la politica non può essere una partita di pallone

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Franco Cimino
  25 agosto 2019 19:37

Due debolezze che si incontrano non fanno mai una forza, ma ciascuna lo strumento per il condizionamento dell’altro. Una debolezza che si serve dell’altro e all’altro è necessario, da una parte trova, proprio nelle due debolezze, il motivo di una sua legittimazione, una sorta di certificato di esistenza in vita. Dall’altra, scopre di possedere un grande potere, quello della interdizione, per il quale se la speculare debolezza vuol sentirsi forte deve assecondare la presunzione di forza del compagno di strada. È un congegno già sperimentato, questo, in epoche passate. Di recente, l’hanno applicato Lega e Cinque Stelle, nella formulazione del contratto di governo e nella sua gestione ministeriale, appena conclusasi.

È facile, pertanto, pensare che un nuovo accordo, dentro la stessa logica, tra il PD e I 5S, si stia tentando di fare. Nessuno si sorprenderà che questo tentativo stia agitandosi tra due forze politiche che hanno vissuto di odio reciproco, facendo ciascuna dell’altro il nemico migliore. Per la propria sopravvivenza, il PD. Per il proprio successo, il movimento di Grillo e Casaleggio. Anche questa volta, la formula che potrebbe essere usata è quella di sempre, la salvezza del Paese. Essa è racchiusa in un lungo elenco di problemi, che qui provo a evidenziare: la crisi economica pesante, la paura dei mercati, l’aumento dell’iva, il blocco degli investimenti, la diffidenza dell’Europa, l’isolamento del Paese, il blocco dell’occupazione, l’aumento dei tassi di interesse e delle tasse, la forte riduzione del potere d’acquisto e conseguentemente della capacità reddituale di ciascuna famiglia.

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Mancano, dall’agenda di governo prossimo venturo, quelli della sicurezza e degli immigrati. Un modo, questo, per segnare, solo formalmente però, la rottura con il precedente esecutivo. Non però la caratterizzazione a sinistra del nuovo, come desidererebbero le due basi elettorali, diverse ma provenienti da quell’unica vecchia base, che il PD, con Renzi in particolare, è riuscito a rompere e a spaventare allontanandola da sé. Nulla di diverso, quindi, dal sempre di questi ultimi vent’anni. Non solo perché i governi nazionali senza la politica che li guidi, contano poco nella gestione dell’economia e dei poteri reali che la orientano, ma anche perché oggi nessun partito e nessuna personalità appaiono in grado di offrire una visione nuova della società, dell’Italia in Europa, e un gruppo dirigente motivato e coeso, in grado di realizzarla. La via che si perseguirà ancora, sarà quella del “ tiriamo a campare” dentro l’unico spazio che, in contrapposizione alla piazza di un paese sempre più povero e più carico di estremi bisogni, si immagina possa garantire il consenso ai partiti e la permanenza sugli scranni del Parlamento ai loro nominati, la maggioranza dei quali non saprebbe dove andare se non tornasse a Roma.

Su queste debolezze e sulla miriade di piccoli interessi individuali, si vorrebbe costruire la nuova Italia, ad opera tra l’altro di persone e aggregazioni politiche che questo obiettivo l’hanno fallito nel lungo ieri e nell’appena passato oggi. Il Paese sconta sempre di più quel male della Politica, che il noto giornalista Ottavio Rossani, con me e da tempo, considera il più pericoloso per le sorti della nostra Democrazia: l’ignoranza culturale e l’assoluta mancanza di cultura delle istituzioni da parte dell’attuale ceto politico. È da qui, a mio avviso, che muove la più grave crisi morale in atto. Quella che non solo corrompe i governanti nel rapporto tra decisione di governo e risorse pubbliche, ma l’azione politica nell’uso distorto delle istituzioni. E prima ancora quella dei partiti-persona, del possesso personale dei soldi e dei mezzi per il loro funzionamento. E quella della stessa idea di comando, che confonde la leadership con la padronanza, le idee forti con la forza degli slogan, il pensiero politico con tre o quattro punti cosiddetti programmatici sospesi nell’aria senza vento che la muova. Se non fosse così, non avremmo avuto la ripetizione geometrica dello stesso errore da parte dei due “ capitani” che, in seguito ad esso, si sono giocati il “comando del Paese” per almeno i prossimi dieci anni. Dopo Renzi, Salvini, gioca sulla sua supponente superiorità i destini politici di tutti. E nemmeno fa il calcolo dei nemici capitali che il proprio stile comunicativo e le più forti ambizioni , ha messo insieme agguerritamente. Se non fosse così profonda la crisi della politica, il pur modesto Giuseppe Conte, anche se di corretta lingua italiana e d’animo gentile, non sarebbe apparso un gigante per quel suo ultimo discorso in Parlamento. Che, va ricordato, per due terzi riguardava il più feroce attacco al suo ministro, e per un terzo l’elencazione enfatica delle cose realizzate dal governo( poche e non importanti). Se non fosse così drammatica la crisi di rappresentanza istituzionale, un intervento, buono ma normalissimo, come quello di Matteo Renzi all’ultima seduta del Senato, non sarebbe apparso, anche ai più esperti commentatori, di morotea levatura e di degasperiana altezza da statista. Se non fosse così estesa la crisi culturale del Paese, il mondo dell’informazione, quello della formazione e dell’intellettualità celebrata, non darebbero della attuale drammatica fase politica la lettura che si ebbe a fare ai tempi più rischiosi della vita della Repubblica. Quelli che videro salvifici protagonisti uomini del rango di Pertini, Fanfani, Lazzati, Moro, Berlinguer, La Malfa, Spadolini, Zaccagnini, e lo stesso Craxi delle sue migliori qualità ed esposizioni.

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È per questo motivo, che chiunque si appresti a fare un’alleanza per il governo, specialmente se anomala sotto molti aspetti, lancia, come fumo per gli occhi dei cittadini, una proposta di tipo propagandistico, che nulla ha a che fare con la soluzione dei veri problemi del Paese. Quelle che hanno riguardato il risibile contratto Lega-Cinque Stelle, le abbiamo conosciute già. E sappiamo che fine hanno fatto e con quali esiti. Le nuove, portate sul tavolo privato per la ricerca di un patto, addirittura di legislatura, tra Zingaretti e Di Maio, sono ancora più discutibili, forse pure risibili, certamente per nulla significative. Più certamente ancora, inapplicabili. Prendiamo quella del PD, partito che non solo è stato pesantemente sconfitto a tutte le consultazioni elettorali, dalle ultime politiche in poi, ma che anche reca con sé la gran parte di responsabilità di aver fatto andare al governo Salvini, lasciandolo pontificare incontrastato per tutti questi quindici mesi. Cosa chiede fermamente e con un solo diktat da far tremare le vene e i polsi? La discontinuità! Cosa significhi, a cosa serva e come la si possa imporre a un partito con cui si voglia primariamente fare pace, questo è un mistero identico a quello di Salvini quando ha aperto la crisi di governo al “ buio sotto il cocente sole d’agosto”. Discontinuità rispetto a chi e a cosa? A Giuseppe Conte , che non deve essere riproposto? Alla presidenza del Consiglio per Cinque Stelle? A tutti i ministri uscenti, evidentemente, Di Maio compreso? A Catanzaro, risponderemmo:” e u voi u gadhru cu i moli?” E più seriamente:” il PD, proporrebbe tutti uomini suoi che non abbiano mai fatto parte di un esecutivo?” Adesso passiamo all’unica condizione posta dagli ex alleati di Salvini. È la solita, che non avrebbe neppure bisogno di esser posta, visto che la stessa ha quasi concluso positivamente il suo iter parlamentare, tanto da rendere ininfluente la vecchia resistenza del PD: il taglio del numero di deputati e senatori.

È evidente che le due condizioni vengano avanzate solo strumentalmente, per coprire tatticamente le difficoltà dell’uno e dell’altro di realizzare un’alleanza che non sia solo una mediocre operazione di piccolo potere o la proiezione della lotta tra le fazioni interne al singolo contraente, per la supremazia nel partito. Si farà o non si farà il nuovo governo giallo- rosso, come viene poco elegantemente etichettato dopo che la Politica e chi la rappresenta, da tempo, ha smarrito i segni distintivi delle singole identità partitiche e ideologiche e la sua stessa natura di cerniera tra i bisogni delle persone egli interessi, i mezzi con i fini? Lo sapremo mercoledì. Intanto, ciò che si vede è una realtà molto triste. Direi assai preoccupante. Dalla quale uscirne nel permanere di tale contesto, fissità parlamentare inclusa, è davvero tanto difficile da non ritenere sufficiente il senso di responsabilità, la cultura delle istituzioni e l’amore per la democrazia del Presidente della Repubblica.

Franco Cimino

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