Giornata contro la violenza sulle donne, la riflessione di Lepera: "Perché serve parlarne sempre"

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Massimiliano Lepera
  25 novembre 2022 16:36

di MASSIMILIANO LEPERA

Oggi, 25 novembre, da ormai 23 anni, viene celebrata la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne: dal 25 novembre 1999, infatti, tale data è stata scelta dalle Nazioni Unite per ricordare ad perpetuum l’anniversario della brutale uccisione delle tre sorelle Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal, assassinate il 25 novembre del 1960 con la “colpa” di essersi opposte al regime dittatoriale dominicano di Rafael Leònidas Trujillo. Una terribile storia che, tuttavia, ha alle spalle secoli e secoli di soprusi, violenze, sottomissioni, afflizioni e tormenti subiti dalle donne di ogni tempo e luogo, molto spesso semplicemente per il fatto di essere donne. E molto spesso dimenticate dalla cronaca e dalla storia. Ma partiamo dall’episodio dal quale è scaturita l’idea di celebrare questa giornata. Le tre sorelle dominicane, soprannominate “las Mariposas”, le farfalle, pur cercando di vivere una vita serena e tranquilla, vissero costantemente vessate dalla persecuzione discriminante del regime di Trujillo, instaurato nella Repubblica Dominicana già dal 1930, sulla scia di altri terribili regimi e dittature del tempo, quali il fascismo di Mussolini in Italia, il nazismo di Hitler in Germania e la Spagna franchista di Francisco Franco. Un episodio, tuttavia, spinse le tre sorelle a opporsi decisamente e apertamente al regime, senza timore alcuno e con un immenso coraggio: nel 1949, durante la festa patronale organizzata da Trujillo in onore di San Cristobal, Minerva Mirabal venne corteggiata spudoratamente, e con una certa arroganza, dal dittatore e lo rifiutò con fermezza e disprezzo. Da qui in poi, le tre sorelle, insieme ai rispettivi mariti e a tanti altri cittadini scontenti del regime, militarono attivamente contro la dittatura, aderendo al “Movimento 14 giugno”. Tale organizzazione in aperto dissenso con il regime venne tuttavia scoperta e tutti coloro che ne facevano parte vennero perseguitati e fatti prigionieri, tra cui le tre sorelle Mirabal. Costoro, tuttavia, dopo esser state rilasciate inaspettatamente, andarono incontro al loro tragico destino qualche mese più tardi. Era il 25 novembre quando, invitate a salire, con l’inganno, su una jeep che le avrebbe condotte a far visita ai loro mariti in carcere, furono invece portate in una sperduta piantagione di zucchero, nella quale vennero uccise con crudeltà a bastonate. I loro cadaveri vennero poi riposti nel veicolo, che fu fatto precipitare in un dirupo per simulare un incidente stradale. Tale episodio, che fece emergere presto la verità e la palese colpa del regime di Trujillo, fece crescere una forte reazione popolare, repressa ancora nella violenza. Non molto tempo dopo, anche sul piano internazionale crebbe lo sdegno contro il regime di Trujillo, il quale venne assassinato dai suoi stessi generali nel 1961. Le successive elezioni democratiche in Repubblica dominicana e la libertà ottenuta dal Paese furono raggiunte a caro prezzo, con il sacrificio delle tre “Mariposas” e di tantissimi altri oppositori del regime. Circa vent’anni dopo, il 25 novembre 1981, in Colombia si è svolto il primo “Incontro Internazionale femminista delle donne latinoamericane e caraibiche”, che è stato organizzato volutamente nel giorno della ricorrenza della morte delle tre sorelle Mirabal, donne divenute simbolo di libertà e di lotta all’oppressione.

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Da quell’anno, la data del 25 novembre è stata riconosciuta come simbolo delle donne vittime di violenza. Approvata poi definitivamente dall’ONU nel 1999, negli anni si è arricchita di nuovi simboli, in particolare del colore rosso, utilizzato dall’artista messicana Elina Chauvet nella sua istallazione “Scarpette rosse”, apparsa per la prima volta davanti al consolato messicano di El Paso in Texas: con questa opera d’arte, la Chauvet, per mezzo dell’esposizione di centinaia di scarpe rosse abbandonate in una piazza, ha voluto ricordare le centinaia di donne stuprate e uccise a Ciudad Juarez. Lei stessa, nel contempo, ricordava la sorella, uccisa dal compagno a soli 22 anni. Da allora le scarpe rosse sono diventate il simbolo della lotta per i diritti delle donne e contro la violenza di genere. Dopo questa breve parentesi legata ai trascorsi storici della Giornata Internazionale del 25 novembre, è bene ribadire ancora una volta che la donna, nella storia e nel tempo, ha sempre subìto gravi ingiustizie e soprusi. Perché quando si parla di violenza, non si intende soltanto la violenza fisica, che spesso purtroppo sfocia nell’uccisione, ma si fa riferimento alla violenza in tutte le sue forme: dalla violenza verbale a quella psicologica, dalla violenza socio-economica a quella di genere. La condizione della donna nella società lungo il corso dei secoli ha sicuramente subìto parecchi cambiamenti, in base all’evoluzione socio-politica dei popoli, la diversità dei fattori geografici e storici e la sua appartenenza ai vari gruppi sociali. Ma un fattore comune emerge già a primo impatto: in quasi tutti i tempi e luoghi, la donna è stata sottoposta a un trattamento meno favorevole rispetto all’uomo, sia dal punto di vista giuridico sia economico sia civile, rimanendo per lungo tempo esclusa da numerosi diritti e attività sociali. Se si considera che già nella Preistoria la donna era relegata a gestire l’ambiente domestico, dedicandosi ad attività semplici e basilari, mentre gli uomini andavano a caccia e si procuravano l’occorrente per vivere, gestendo la gran parte delle attività della famiglia, basti pensare anche che nell’antica Grecia, ritenuta da tutti patria di cultura, libertà e democrazia, la donna era considerata ignorante e inferiore all’uomo, soggetta alla potestà del padre fino al matrimonio, e poi del marito. Esisteva addirittura un’area della casa, soprannominata gineceo (dal termine greco “gyné”, che significa donna), esclusivamente destinata alle donne, affinché restassero isolate dagli uomini e si dedicassero soltanto a ciò che a loro competeva: procreare e allevare i figli! Anche in epoca romana la donna rimase una semplice figura del nucleo familiare, che doveva unicamente pensare al mantenimento della prole e della casa, mentre le scelte erano affidate al “pater familias”, il quale ricopriva le cariche pubbliche.

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Nel Medioevo, invece, non si riuscì a trovare una normale misura nella visione della donna, che veniva vista in due modi nettamente opposti: o angelico e spirituale (si consideri la “donna angelo” degli Stilnovisti, ad esempio) o stregonesco e maligno. Spesso la donna veniva vista come “instrumentum diaboli”, incarnando la tentazione e il male nascosto. Anche nel mondo cristiano, nonostante si professasse l’uguaglianza, la parità e il rispetto di tutti, la donna continuava a mantenere pochi diritti: ad esempio, quando si sposava riceveva una dote, ma perdeva il diritto di amministrarla, in quanto era il marito a gestire il patrimonio; inoltre non era libera di fare testamento, ma doveva sottostare al potere del marito e occuparsi solo della sfera del privato. Certo, grazie al lavoro le donne potevano sentirsi più “libere”: non rimanevano più confinate in casa e sottomesse all’uomo, poiché le contadine lavoravano nei campi, le artigiane alla bottega del marito e così via. Ma rimaneva comunque una piccolissima goccia nell’oceano, dopo secoli e secoli di angherie. Neanche nella cultura musulmana la condizione della donna era migliore, anzi! L’incontro tra uomo e donna avveniva il meno possibile e venivano vissute quasi due vite distinte. Le donne musulmane non potevano frequentare la moschea, ma andavano spesso ai bagni pubblici dove compivano i riti di purificazione, e se esercitavano delle attività economiche, dovevano utilizzare collaboratori maschi per poter trattare i propri affari. Andando avanti nel tempo, nel Seicento e in parte anche nel Settecento, quasi in linea con il Medioevo, si nutrivano grandi paure e pregiudizi nei confronti dell’universo femminile: le donne che decidevano di ribellarsi al potere dell’uomo e alle regole della società venivano accusate di essere delle streghe e condannate al rogo. Dopo la Rivoluzione francese, con l’avvento del regime napoleonico in Francia e in Europa, la sfera dei diritti delle donne venne ampliata e poterono mantenere il proprio cognome, anche in caso di matrimonio, ed esercitare autonomamente attività commerciali; fu anche abolita la disparità di trattamento nella divisione dell’eredità del patrimonio familiare. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, le rappresentanti del genere femminile iniziarono a far sentire la propria voce e a chiedere con maggior forza gli stessi diritti degli uomini. L’industrializzazione contribuì a velocizzare e favorire il cambiamento, perché le donne cominciarono a lavorare, dimostrando di essere valide quanto gli uomini, soprattutto durante le due guerre mondiali, quando dovettero sostituire nei loro compiti gli uomini, chiamati alle armi. Soltanto intorno alla metà del XX secolo, tuttavia, si realizzarono nuovi cambiamenti epocali: in Italia, nel 1946, le donne votarono per la prima volta, nel 1948 la Costituzione stabilì l’uguaglianza tra i sessi e nel 1975 una legge decretò la parità di diritti tra marito e moglie. Soltanto dopo secoli e secoli di sofferenze, soprusi, battaglie, si può affermare che finalmente la donna oggi è lavoratrice e cittadina, che non può né deve sottostare al potere dell’uomo e di nessuno, che il suo ruolo, la sua competenza, la sua forza lavoro, da sempre esistite nella storia, ma non sempre riconosciute, nella società odierna rivestono un peso fondamentale e che avrebbero dovuto sempre rivestire, senza mai passare in secondo piano, vittime di umiliazioni, ridimensionamenti e inutili e insensate discriminazioni. Ancora, tuttavia, la strada verso la libertà, la parità, la piena realizzazione di sé senza dover dare conto a nessuno è in salita: ciò non riguarda soltanto la condizione della donna in alcune parti del mondo, come nell’area islamica (qui ancora oggi la condizione della donna musulmana è seriamente problematica: deve affrontare l’autorità del padre, dei fratelli, del marito, è considerata una tentazione diabolica per i credenti, il suo corpo è “motivo di vergogna” e va perciò velato, spesso non gode della libertà di spostamento, della libertà di espressione e di parola, non può procedere negli studi né fare carriera, è totalmente sottomessa all’uomo), ma i numeri allarmanti che, ancora nel 2022, lascerebbero allibito chiunque.

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Perché non bisogna mai smettere di sdegnarsi e dire basta. Dire basta alla violenza in generale, ma anche agli infortuni femminili in ambito lavorativo: i dati Inail evidenziano che, nel quinquennio 2017-2021 tra gli infortuni femminili in occasione di lavoro, la causa “violenza, aggressione e minaccia”, proveniente da persone esterne all’azienda o da colleghi della stessa azienda, rappresenta oltre il 5% dei casi codificati, circa 20.500 infortuni; tra le lavoratrici vittime di aggressioni o violenze, quasi il 60% svolge professioni sanitarie-assistenziali, seguite da insegnanti e specialisti dell’educazione-formazione, impiegati postali, personale di pulizia e servizi di vigilanza e custodia. Bisogna dire basta agli abusi verbali, alla violenza fisica e sessuale, agli omicidi: nel mondo la violenza contro le donne interessa 1 donna su 3; in Italia i dati Istat mostrano che il 31,5% delle donne ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale e che le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner o ex partner, parenti o amici; gli stupri sono stati commessi nel 62,7% dei casi da partner. Secondo l’ultima nota Istat sulle vittime di omicidio, nel 2021 sono stati commessi 303 omicidi: in 184 casi le vittime sono uomini e in 119 sono donne (il 39,3% del totale). Le vittime uccise in una relazione di coppia o in famiglia sono 139 (45,9% del totale), 39 uomini e 100 donne. Il 58,8% delle donne è vittima di un partner o ex partner (57,8% nel 2020). Fra i partner assassini, nel 77,8% dei casi si tratta del marito, mentre tra gli ex prevalgono ex conviventi ed ex fidanzati. Bisogna dire basta, non soltanto il 25 novembre di ogni anno, ma bisogna sdegnarsi recisamente e dire basta ogni giorno, basta alla violenza contro le donne e a ogni tipo di violenza contro chiunque. Perché soltanto con la cultura, l’informazione, la comprensione, l’uguaglianza, il rispetto e i valori positivi potranno essere diffusi, nel futuro, dati migliori che ci renderanno finalmente degni e onorati di far parte del genere umano e della vita.

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