di VANNI CLODOMIRO
Per ricordare la giornata della memoria, è fondamentale porre l’accento sul razzismo, senza del quale le grandi tragedie dei campi di concentramento non sarebbero avvenute. Ma è opportuno, per parlare del razzismo di Hitler e di Mussolini, andare un po’ indietro nel tempo, ricordando che l’amicizia tra i due è ben precedente ai devastanti eventi dell’olocausto.
Per parlare dell’amicizia, e dell’alleanza, tra i due, bisogna partire un po’ da lontano. Il famoso Patto d’acciaio è del 22 maggio 1939, ma la loro amicizia risale praticamente a poco dopo la presa del potere da parte del dittatore tedesco, il quale aveva sempre nutrito un’autentica ammirazione per Mussolini, al punto di farsene quasi un mito: per lui, era un grande statista, a cui si sentiva politicamente vicino. I due sono stati a lungo convinti di essere sulla stessa lunghezza d’onda, ma col tempo sarebbero inevitabilmente nate divergenze, che comunque, in un modo o nell’altro, sarebbero state superate. Può sembrare un rapporto di amore e odio, ma alla fine avrebbe avuto il sopravvento sempre l’amicizia: in verità più da parte di Hitler, che da Mussolini, il quale era molto più attento al proprio successo, che a nutrire un’amicizia più o meno sincera per il führer.
Sta comunque di fatto che tra i due si stabilì una perversa alleanza. In genere, si pensa che Hitler e Mussolini siano caratterizzati da concrete differenze: un po’ più duro il primo, un po’ più morbido il secondo, ma in realtà non è così. Essi si somigliano molto più di quanto non sembri: sono due persone autoritarie, due veri dittatori, che hanno consapevolmente e caparbiamente impedito la libertà di espressione. Dunque, sostanzialmente molto simili. Diverso invece il discorso sui loro regimi, e la diversità si riscontra specie se si considera quella che abbiamo sempre definito la partecipazione delle masse.
Insomma, il nazismo e il fascismo, dal punto di vista puramente politico e, per così dire teorico, furono due esperienze che poco avevano in comune: il nazismo tendeva alla creazione di una nuova società, i cui valori più profondi erano valori tradizionali, antichi, se non addirittura immutabili. Perciò, tendeva ad una restaurazione di valori, non alla creazione di valori nuovi; invece l’idea del fascismo era proprio quella di un nuovo tipo di uomo. In questo senso, e da questo punto di vista, forse Nietzsche è stato più fecondo in Italia, attraverso Gabriele D’Annunzio, che nella stessa Germania: qui sta la grossa differenza tra nazismo e fascismo.
Anzitutto, la responsabilità della classe dirigente tedesca è inferiore a quella italiana: l’unico punto in cui è invece responsabile è che, a differenza della classe dirigente italiana, essa sapeva già cos’era il fascismo, al potere da ben dieci anni.
I due dittatori stabilirono di incontrarsi, e come luogo si decise Venezia, a metà strada tra Roma e la Germania (inizialmente, Hitler non voleva recarsi a Roma). Importante è la scelta del luogo e della data, il 14 giugno 1934, entrambi di fatto proposti dal governo italiano, a dimostrazione del maggior peso politico di Benito Mussolini rispetto al führer.
In un certo senso più autonoma appare la politica del duce sulla politica razziale, rispetto alla quale bisogna fare una discorso diverso: contrariamente a quanto comunemente si crede, le leggi razziali non sono state imposte all’Italia da Hitler. Già con la guerra d’Africa si era fatta strada in Mussolini l’idea che gli italiani avessero, per così dire, fraternizzato un po’ troppo con gli africani, il che lo indusse a credere che ciò avrebbe potuto in futuro minare la più genuina identità della nazione (dimenticando però che l’antico impero di Roma era tranquillamente multietnico); l’emanazione della legge del 1938 fu dovuta alla convinzione che così sarebbe stata preservata quell’italianità, cui il duce aveva sempre tenuto molto, rivelando in realtà un suo razzismo diverso e comunque autonomo rispetto a quello, estremo, teorizzato dal führer. D’altra parte, aspetti del razzismo in Italia, che potrebbero sembrare di secondaria importanza, si possono individuare in altre circostanze: ad esempio, non si possono ignorare alcuni provvedimenti decisamente vessatori che il fascismo adottò nei confronti delle minoranze linguistiche, nell’intento di preservare la purezza italiana anche dal punto di vista della lingua. Allo scopo, si vietava che si pronunciassero alcune espressioni e alcuni termini presi in prestito da lingue straniere (cocktail diventò arlecchino, chaffeur diventò autista, ecc.). Da questo punto di vista, è utile ricordare che un certo Franco Natali, membro dei fasci di combattimento bergamaschi, scrisse un piccolo volume dal titolo significativo Come si dice in italiano? Vocabolarietto autarchico. Il libro, del 1940, spiegava tra l’altro che l’autarchia, a parte i vantaggi per il commercio e l’industria, doveva essere intesa come una ben precisa mentalità (e si sa bene che una delle acquisizioni più significative della storiografia recente è proprio l’attenzione prestata alle mentalità, anch’esse fondamentali nel contribuire ai mutamenti della storia). Perciò, come si vede, quel particolare orgoglioso senso dell’italianità faceva parte di una più ampia visione del tutto compatibile con una sia pure poco appariscente forma di razzismo. Nessuna difficoltà quindi nell’emanare le leggi razziali.
Con queste premesse, e con la folle e perversa mente del führer, oggi possiamo dire che era prevedibile ciò che è accaduto nei campi di Auschwitz, Buchenwald, Birkenau (per citare solo i più noti) ecc. In quei luoghi la negazione dell’umanità fu eretta a prassi quotidianamente usata non solo nei confronti dei deportati, ma di tutti i popoli del mondo civile. Tutto ciò che di quella terribile esperienza abbiamo memoria non può non indurre a pensare, e a sperare, che fu unica nella storia del mondo moderno: cioè che non sia più possibile che si possa ripetere.
Per capire un po’ meglio la follia di Hitler, chiudiamo solo con la citazione di un giudizio su di lui dello storico tedesco Friedrich Meinecke, vissuto nel pieno periodo del nazismo: «In tempi normali, l’individuo Hitler, gravemente affetto da psicopatia ed artista fallito, con la sua ardente ambizione e i suoi ripensamenti avrebbe condotto altrove una problematica esistenza, ma l’epoca storica, del tutto anormale, chiamò sul teatro della storia un individuo anormale, onde pervenire insieme alla più tremenda esasperazione».
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