nota di Nunzio Belcaro, presidente Commissione cultura del Comune di Catanzaro
Intorno a mezzogiorno del 27 gennaio 1945 quattro giovani soldati dell’Armata Rossa, a cavallo, giunsero per primi ai cancelli di Auschwitz.
La testimonianza di Primo Levi tratta dal libro La Tregua:
“Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa”.
Quei soldati si trovarono davanti a settemila superstiti ridotti a pelle e ossa, che vagavano in un campo di morte, centinaia di migliaia di abiti e otto tonnellate di capelli umani come prime tracce dello sterminio dove avevano trovato la fine della loro esistenza oltre un milione e mezzo di persone.
All’ingresso una scritta surreale, orrendamente beffarda, Arbeitmacht frei: “il lavoro rende liberi”.
Niente nella storia degli uomini è equiparabile all’olocausto, nessuna rappresentazione infernale fantasiosa riesce ad essere spaventosa quanto l’irraccontabile realtà che avveniva all’interno di quel filo spinato.
A 78 anni di distanza dai fatti sono ormai pochissimi i testimoni diretti viventi. Il compito della memoria si fa sempre più difficileall’interno di una società che legge quei fatti come lontani dal proprio presente, inverosimili rispetto alla propria realtà e quindi percepiti come non replicabili.
Un riconoscimento di condanna unanime che è diventato ormai un esercizio retorico, poco strutturato di vera conoscenza della storia e degli accadimenti. Mai ho pensato che il certamente condannabile revisionismo o peggio ancora il negazionismo complottista di sparuti idioti fossero i reali nemici della Memoria. Mi spaventa molto di più l’indifferenza della maggioranza delle persone.
Essere indifferenti a quell’orrore, non prendere coscienza con fattiche, proprio perché accaduti, siamo certi della possibilità che possano riaccadere, contribuisce a leggere con la stessa indifferenza gli episodi attuali d’intolleranza, d’odio e di discriminazione, fra l’altro alimentati da forze politiche spregiudicate.
Una ferale indifferenza che contribuisce a far vivere con distaccouna nuova pericolosissima guerra nel cuore dell’Europa, quasi come fosse un film, un fronte distinto fra buoni e cattivi che cambiano ruolo a seconda della prospettiva di chi racconta, dove i governi convivono tranquillamente con dichiarazioni e intenzioni politiche dove la parola pace non trova quasi più spazio.
Ecco perché sarebbe bello assistere oggi ad una Memoria che viaggi attraverso i nuovi mezzi di comunicazione, che diventi virale nei reel e nelle storie dei social, che aiuti le nuove generazioni a porsi domande, a chiedere, a fare ricerca.
La scuola non può essere lasciata da sola in questo. La Memoria è un fatto politico, non è un insieme di storie e nozioni da imparare: è portatrice di giudizi e valori che diventano punti cardinali per orientarci nel presente. La Memoria è una responsabilità collettiva che va alimentata prendendo posizione sempre, non soltanto nel giorno dedicato come alibi per la propria coscienza.
Scriveva Levi in Se questo è un uomo che parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l'esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l'uomo è stato una cosa agli occhi dell'uomo.
Basterebbe davvero esercitarsi in un compito eterno e mai risolto: vedere sé stessi negli occhi di qualsiasi uomo
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