“I classici oggi”/3. La “fobìa” e l’enorme mole di parole che ne derivano

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  12 dicembre 2021 19:40

di MASSIMILIANO LEPERA

Oggi ci portiamo dietro, pur nel XXI secolo, un immenso patrimonio classico, consapevolmente o meno. Un chiarissimo esempio di ciò è l’enorme mole di parole che, al loro interno, contengono il suffisso “fobìa” per rappresentare il timore o la paura per ciò di cui si parla in quello specifico contesto. Tale termine, che già di per sé viene utilizzato normalmente, ormai, per indicare letteralmente la paura, magari in maniera più formale e aulica, è ovviamente di origine greca e significa proprio “paura, timore, terrore”.

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Se, dunque, si vanno a citare alcuni termini che contengono al loro interno questo vocabolo di stampo classico, sarà sicuramente più chiaro il loro straordinario legame con l’antichità. Un vocabolo molto utilizzato oggi, ad esempio, è claustrofobia. Ma che cosa significa esattamente questo termine e da che cosa deriva di preciso? Oltre al suffisso su citato “fobìa”, infatti, è presente stavolta un altro vocabolo classico, ma di derivazione latina, ovvero “claustrum” (luogo chiuso; tale termine è connesso etimologicamente anche al verbo latino “claudo”, che significa appunto chiudere): pertanto, la claustrofobia sarà la paura dei luoghi chiusi.

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E l’agorafobia, al contrario? Trattasi effettivamente proprio del contrario del precedente vocabolo, in quanto, oltre all’ormai usuale suffisso “fobìa”, indicante sempre la paura, è presente qui il vocabolo greco “agorà”, che sta a significare letteralmente la piazza (rappresentava il luogo pubblico per eccellenza, nel quale si svolgevano i principali servizi e le principali attività nell’antica Grecia; di questa, in seguito, raccolse un’eredità pressoché uguale il foro romano); l’agorafobia dunque rappresenta la paura o il disagio legati ad ambienti non familiari e nello specifico a spazi aperti o affollati. Di conseguenza, gli aggettivi claustrofobo e agorafobo identificano i soggetti che soffrono, rispettivamente, gli spazi chiusi o gli spazi aperti.

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Chi sarà, invece, un cinofobo? Considerando che il termine derivante dal greco antico, ovvero “kuon-kunos”, connesso al latino “canis”, significa “cane”, tale vocabolo indica colui che ha paura dei cani; mentre l’aracnofobia è la paura dei ragni, poiché “aracne” in greco significa ragno (tale termine è tra l’altro connesso con il noto mito di Aracne: la giovane fanciulla di nome Aracne era un’abilissima tessitrice che aveva attirato l’invidia della dea Atena; ma poiché la giovane mortale negava di aver appreso quest’arte per mezzo dell’influsso della dea e addirittura aveva la superbia di porsi al di sopra della stessa, Atena la sfidò nell’arte della tessitura e, dopo aver constatato che, incredibilmente, la tela di Aracne fosse migliore della propria, la punì distruggendo la tela e trasformandola in un ragno: così avrebbe potuto per sempre tessere e filare, attraverso le ragnatele).

I termini che contengono l’idea di paura, attraverso il termine “fobìa”, sarebbero ancora tantissimi, ma si citano, per curiosità e dovizia di particolari, gli ultimi due, purtroppo molto in uso oggi: omofobia e xenofobia. Il primo sembrerebbe connesso al greco “homos/omoios”, che significa “stesso, medesimo”, ma in tal modo il termine italiano significherebbe “paura dello stesso, del simile”. In tal caso, eccezionalmente, l’etimologia che ci avvicina al significato usuale (e anche giuridico) è quella che lega il prefisso “omo” a “omosessuale”: allora, più chiaramente, si tratterebbe di “paura dell’omosessuale”, sostituendo tuttavia, in questo contesto, il termine paura con il termine “avversione ossessiva” (per gli omosessuali).

Xenofobia, infine, è connessa al greco antico “xénos”, che significa “straniero”, e rappresenta pertanto l’avversione per gli stranieri e per ciò che è straniero. Insomma, questa serie di vocaboli e un’altra enorme quantità ci dimostrano come, oggigiorno, siamo ancora figli della classicità.

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