di FILIPPO VELTRI
Barricate a Pescara, Reggio e L'Aquila per il capoluogo. A 50 anni dagli eventi un filo invisibile lega tra loro L'Aquila, Pescara e Reggio Calabria: tutte e tre lottarono cinquant'anni orsono per ottenere il capoluogo delle rispettive Regioni, i cui Statuti furono approvati, mezzo secolo fa, dopo dure sommosse popolari. L'Aquila rappresentò l'ultimo anello di una catena di un malcontento che si evidenziò nel giugno del '70 in riva all'Adriatico, poi, dal luglio successivo fino al 24 febbraio del '71, sullo Stretto e, infine, dal 26 al 28 febbraio seguenti, sotto al Gran Sasso.
Quelle rivolte vengono ora analizzate nel libro di Antonio Andreucci I Moti del pennacchio - Barricate a Pescara, Reggio e L'Aquila per il capoluogo (One Group editore, 152 pag. 17,99 euro ordinabile su www.onegroupedizioni.it/i-moti-del-pennacchio, Amazon e principali librerie). Attento osservatore della realtà - osserva Marco Patricelli nella prefazione - l'autore applica la sua lunga esperienza giornalistica per l’Ansa a una rigorosa ricostruzione che è anche inchiesta documentata su ciò che fu e perché si innescarono sanguigne passioni, accese rivalità, strategie da consumati giocatori di scacchi sul tavolo della politica, in alternanza a mosse avventate in piazza e in strada. Ribollì la società di tre città per l’incapacità tutta politica dapprima di indicare, quindi scegliere, il capoluogo di regione secondo la miglior soluzione possibile, poi per la ricucitura col filo del compromesso. La toppa peggio del buco.
I Moti sembrano una pagina polverosa del nostro passato, capace però di rinnovare emozioni in chi li visse come tributo a disegnare questo presente o quello che si immaginava diverso. Non fu una questione di campanile, come si etichettò il montare della rabbia non sempre spontaneo e quasi mai sotto controllo, ma uno scontro di mentalità per i tempi che stavano cambiando e di cui pochi avevano afferrato la portata epocale.
Oltre ad analisi sociali e politiche, il libro "smonta" alcuni luoghi comuni: non furono sommosse fasciste, ma popolari ed eterogenee sotto i profili culturale e politico nelle quali i "rossi" di Lotta continua agivano assieme ai "neri" del Msi e alla cosiddetta "società civile"; nessuna città aveva una titolarità storica e giuridica per rivendicare il "pennacchio" di capoluogo regionale; sotto il "profilo tecnico", L'Aquila fu la più danneggiata e, come Reggio, oltre al danno subì una particolare beffa. La politica si confermò incline al "particulare", incapace di avere una visione kantiana. dei problemi messi a nudo da quelle rivolte.
A mezzo secolo dai fatti cosa resta di quelle sommosse e cosa sono quelle città? Il libro sfata alcuni luoghi comuni e formula delle risposte che riguardano idealmente anche il Mezzogiorno d'Italia. Ci sono pagine della storia che quando vengono rievocate possono suscitare il bruciore di una ferita mai compiutamente rimarginata, oppure l’effetto lenitivo del tempo trascorso o persino l’indifferenza del passaggio generazionale.
I Moti sembrano una pagina polverosa del nostro passato, capace però di rinnovare emozioni in chi li visse come tributo a disegnare questo presente o quello che si immaginava diverso. Non fu una questione di campanile, ma uno scontro di mentalità per i tempi che stavano cambiando e di cui pochi avevano afferrato la portata epocale.
Antonio Andreucci, giornalista, per 30 anni all’ANSA, ha concluso la sua esperienza come corrispondente da Madrid per la Penisola Iberica. Vive e lavora tra l’Italia e la Spagna. Vincitore della prima edizione del premio di poesia Umbertide e della "Targa Presidente della Repubblica" del Premio cronisti UNCI 2010. Finalista dei premi Siena e Argentario 2016 per la narrativa inedita con Il ragazzo che aveva sognato l'America e vincitore, con il romanzo In nome del Padre - Scandali, segreti e intrighi oltre l'ombra del Cupolone, del premio europeo Wilde per inediti 2017. Vincitore del premio giornalistico "Polidoro" alla carriera 2020.
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