di LAURA MELARA*
Violenza verso gli animali, il caso del lupo di Marcellinara mi porta a esprimere una considerazione psicologica.
Gli atti di violenza, spesso di crudeltà, verso gli animali, dal punto di vista psicologico obbligano a riflettere su alcune questioni che attengono alla personalità di chi commette l'atto criminale. Non esiste un "profilo di personalità" che definisca nello specifico, ma certamente atti di questo genere rientrano nelle cosiddette "condotte antisociali" che possono avere come substrato una personalità antisociale. In realtà, al di là di questi inquadramenti nosografici, è più utile riflettere su alcuni aspetti dell'atto violento in sé, per comprendere il fenomeno, se tale è. È stato spesso affermato che azioni simili implicano un difetto nella capacità empatica dell'individuo, cioè la capacità di percepire che l'altro, sia esso umano o animale, è un essere sensiente , pertanto sperimenta dolore, gioia etc. Occorre essere chiari, però, sul tipo di "difetto".
Chi commette un atto crudele non è che non sappia o non si renda conto che la vittima soffre, lo sa benissimo e lo fa proprio affinché la vittima soffra. Il difetto consiste proprio nel fatto che quella sofferenza non ingenerare nessun sentimento di identificazione-compassione ma, addirittura, come spesso si sente dire alle confessioni, "divertimento". Lo abbiamo fatto per divertimento e' una delle affermazioni più frequenti nel caso di crudeltà gratuite verso gli animali. Si tratta, ovviamente, di affermazioni che fanno inorridire perché ci mettono di fronte alla incapacità degli autori di reato di sperimentare sentimenti umani, di fronte al dolore, che noi consideriamo comuni e normali.
Altra considerazione va fatta rispetto alle modalità del gesto :esso non viene nascosto, viene, piuttosto, esibito. Il caso del lupo colpisce non solo per l'uccisione in sé, ma per l'ostensione del corpo-vittima. Chi commette l'atto lo ostenta perché vuole che si veda, vuole che se ne parli, anela ad una "identità negativa" che gli viene restituita dalla disapprovazione altrui. La tracotanza con la quale viene esposto il proprio gesto fa pensare ad un bisogno di riconoscimento proprio "in negativo". Per dirla in altri termini : persone inconsistenti possono raggranellare un minimo di pseudo autostima e "sentirsi forti" attraverso atti di questo genere. Non bisogna, tuttavia, intendere che ciò riduca l'atto a semplice "smargiassata", perché la crudeltà è un fenomeno psichico complesso ed il ripresentarsi di accadimenti di questo genere deve farci riflettere seriamente sul tema sociale della violenza in tutte le sue manifestazioni e sulle determinanti (individuali, sociali, culturali). Condannare il gesto serve, ovviamente, ma non è certo azione sufficiente a fungere da deterrente per chi, invece, di quella pseudo-notorietà negativa ha bisogno e, esibendo il suo gesto, va alla ricerca della disapprovazione sociale per avere uno straccio di conferma alla sua fragile identità.
Non ci sono, quindi, ricette facili. Nei casi in cui gli autori del reato vengono identificati, è abbastanza intuibile che il solo "scontare la pena" prevista può non mutare nulla nel loro rapporto col mondo. Occorre pensare (ed in alcune realtà lo si fa) a percorsi rieducativi. Tuttavia la via primaria dovrebbe essere la prevenzione sociale, cioè il far si che si ad divenga ad un diffuso e comune senso di civiltà e rispetto.
Questo obiettivo è, principalmente, culturale, concerne, cioè, l'evoluzione di un popolo e non può che essere perseguito con tutti gli strumenti culturali che siamo in grado di attivare.
* psicologa
componente del comitato dell’associazione VITAMBIENTE
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