Il cittadino, rabbia trasversale e vulnus alla cultura

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Valentina Falsetta
  11 dicembre 2021 21:17

di VALENTINA FALSETTA

Lunedi 6 dicembre ho avuto modo di partecipare ad uno della serie di incontri di Direzione Catanzaro, devo dire curiosa e intraprendente iniziativa nata da poco nella mia città.

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Come spesso mi accade le riflessioni sono giunte a conclusione dopo una settimana pregna di vicende politiche nazionali e ancor più sociali, in un modo che nel mio ragionamento di osservatore si interseca senza pretesa di essere in toto condivisibile, frutto, specifico, della mia personalissima esperienza di studentessa che peraltro, per vicinanza familiare, ha vissuto a pieno la città e l’esperienza imprenditoriale in essa.

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Nell’incontro in questione si parlava di città universitaria e com’era ovvio si è finito anche per toccare il settore politico, ad un certo punto della discussione, si inizia a chiedere dando voce ad un mio pensiero taciuto: non è che, poco poco, il problema nostro primario non è la politica quanto il fattore cultura? Annuisco sommessamente, ascolto fino alla fine di problemi sui trasporti che sembrano irrisolvibili, la settimana trascorre, tuttavia quel tarlo sul fattore culturale rimane più forte del solito. 

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Ritorno agli anni del liceo in cui il pensiero critico andava formandosi e ai discorsi del professore di filosofia che, buon’uomo, cercava di fare appassionare ad un mondo altro e Alto rispetto alle demenze social, di indurci alla curiositas  quasi vedesse il futuro degli adolescenti seduti in classe e poi letteralmente seduti nella vita, passivi alle decisioni, sottomessi all’idiozia del – io di queste cose non mi occupo, tanto il potere decide per noi senza margine di partecipazione-. 

 Ritorno al progetto Gutenberg e all’uomo-cittadino della letteratura greca e latina e perdendomi in quel sistema di valori faccio caso a quel che è stato faro fisso dalla mia adolescenza fino ad oggi che sono universitaria a Catanzaro, cercando di non essere troppo polemica. 

In quegli anni scendevo da scuola per andare a pranzare nell’attività di famiglia e percorrendo Corso Mazzini ricordavo le foto della città vecchia appese alle nostra mura, e mio padre dirmi che tutte le bellezze architettoniche negli anni le avevano distrutte: io attonita inizio a maturare un certo interesse, che negli anni è potuto solo aumentare, per città in cui non sono nata nè cresciuta e mi domandavo quale popolo potesse mai fare una cosa del genere a se stesso: un popolo che non si conosce nè conosce amore per la storia, mi rispondevo sprezzante.

Lo stesso insieme di cittadini che ha assistito inerme alla disfatta di quelle strutture oggi assiste all’esodo giovanile e non. 

 Negli anni delocalizzano, si mantiene peraltro il campus universitario lontano (nel senso che gli studenti sembrano tanti Odisseo quanto a tempi di viaggio) dalla città e dal quartiere marinaro salvo poi ricordarsene quando è la stagione degli affitti. I pochi eventi culturali e di movimento sociale, allora come adesso, non riscuotono quella mobilitazione cittadina che dovrebbero avere in un punto stantio come Catanzaro, oppure rimangono eventi unici (in senso numerico) da tramandare a figli e nipoti.  

E allora discutendo con gli amici, dico che apprezzo l’intenzione, il dialogo, pure che sono stanca della sonnolenza mentale che si respira, chè quello che facciamo non mi basta a voler rimanere  nella città in cui sono nata e capisco qual è il centro di tutto: questo è il cittadino catanzarese, in fondo, toccato da una linea trasversale di rabbia in un punto, uno solo, che subito passa e si dimentica. Mai abbastanza annoiato da fare fronte unito, mai troppo coinvolto da criticare con l’asprezza necessaria gli addormentati che si fingono i giovani della politica e sono più vecchi dei vecchi.  

Forse il cittadino è anche troppo amico di tutti, forse quel fattore cultura non ci ha davvero permesso di fermare i soprusi sulle bellezze o di fare rumore. 

 Quel punto di rabbia è un urlo improduttivo che mai si trasforma in discussione costruttiva davanti a platee di ascoltatori, in domande scomode (certo non parlo delle dirette su facebook in comune stile sardine, spiace) che fanno tremare gli incapaci e gli improduttivi che governano.  

Qui gli improduttivi ci regalano la locandina degli eventi natalizi (sarà 3 volte Natale nel senso che 3 volte devi sorbirti lo stesso soggetto che suona, si intende) e tanto basta.  

Mi piacerebbe molto scrivere di una progressione culturale come antidoto, che si proietta sulle richieste alla peggiore delle politiche, di una crescita comunicativa che ci avvicini per voglia di parlare e filosofeggiare, anche vanamente, alle città che visito, aimè mi tocca osservare il sonno di governanti e governati e noi pochi ad animarci a vicenda tipo pronto soccorso.  

Mi piacerebbe aver avuto la scelta di dire: viaggio per arricchirmi ma torno per stare bene. 

 Mi piacerebbe aver avuto la serenità di un micro cosmo di stimoli culturali al difuori del liceo e non l’assenza di pensiero comune che mi aspettava uscita da esso.  

Infine e forse pleonasticamente, mi si perdoni se ho disatteso promesse di non polemicità, ritorno ad uno spunto di lunedì 6 dicembre: mi sarebbe piaciuto che non fossimo stati tutti singoli “fili d’erba” smossi da niente. 
Valentina Falsetta

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