"In questi ultimi tempi la Chiesa, uniformata alla parola di papa Francesco, ha attribuito una rilevante importanza al dialogo tra le confessioni cristiane per tentare - si legge nella nota del Comitato Permanente pro Monte di Catanzaro - di raggiungere quella unità che discende dalla volontà stessa del Signore Gesù Cristo, di cui ogni cristiano è fratello e figlio dell’unico Padre".
"Al cospetto di questo scenario inneggiante all’unità, dispiace profondamente - sottolineano - che la Arcidiocesi Metropolitana di Catanzaro–Squillace – che esprime la presidenza della Conferenza Episcopale Calabrese – e il Capitolo Provinciale dei Frati Minori Cappuccini della Calabria, abbiano dovuto avvalersi dell’assistenza di due avvocati per stilare in contraddittorio l’inventario dei beni di propria appartenenza. Questa disputa tra il ramo secolare e quello regolare del clero calabrese deve essere un’esperienza traumatica, un’esperienza che si sarebbe potuta evitare se i nostri appelli non fossero rimasti inascoltati da una parte e dall’altra e se l’Ordine avesse riconosciuto, quando decise di abbandonare Catanzaro, che quei beni, in quanto rappresentanti l’identità storica e culturale della comunità catanzarese, era giusto che rimanessero nella nostra città, luogo in cui si sono formati nei secoli e nel quale sono attualmente e stabilmente collocati, come peraltro raccomandato dall’accordo tra la CEI e il Mibact del 2005".
"Ma tant’é. Oggi per sapere a chi appartenga un calice - aggiungono - un’ampolla e un ostensorio, per attribuire la proprietà a quadri, arredi sacri, parati in seta catanzarese, libri, manoscritti, atti d’archivio e a quant’altro forma il complesso di beni storici, artistici, culturali e religiosi custoditi nel convento e nella chiesa del Monte, occorre tirare fuori documenti probatori, giacché non è applicabile la norma del “possesso equivale titolo” mentre sono ancora valide le prescrizioni contenute nella bolla del vescovo De Riso del 1892. Valide anche, a nostro parere, per regolare l’incremento di valore patrimoniale che i frati cappuccini hanno realizzato all’edificio del convento e della chiesa cui, apprendiamo dalla stampa, il padre provinciale ha intenzione di rinunciare trasformandolo in un lascito concreto al capoluogo di regione".
"Per chiarire meglio i nostri convincimenti, e per comprendere appieno l’intera vicenda - chiariscono - non solo dal punto di vista morale ma anche sotto l’aspetto giuridico, abbiamo richiesto un parere legale, anche in merito alle norme contenute nella ormai arcinota Bolla del Vescovo Bernardo De Riso del 1892".
"Possesso vale titolo, è una fattispecie regolamentata dal’art. 1153 del Codice Civile che trova applicazione - illustrano - nel caso di possesso in buona fede, ovverosia quando il possessore ignora di ledere l’altrui diritto, e quando vi sia l’esistenza di un titolo di acquisto proveniente da chi non è titolare della proprietà del bene alienato. Tale norma ha lo scopo di tutelare le alienazioni compiute a non domino qualora sussistano determinate condizioni: 1) che vi sia un valido atto di acquisto o comunque un titolo idoneo al trasferimento della proprietà (ovviamente non basterebbe un comodato o una locazione); 2) che l’acquirente abbia già conseguito la consegna del bene; 3) che l’acquirente sia in buona fede al momento in cui il bene gli viene consegnato, ossia non solo ignori che l’alienante non aveva diritto di disporre della cosa, ma che tale ignoranza non dipenda da sua colpa".
"Appare in tutta evidenza - affermano - che la regola del possesso vale titolo non può trovare applicazione nella vicenda del Monte perché relativa a fattispecie completamente diversa. Infatti, come chiaramente emerge dalla bolla, i beni mobili non sono stati venduti dal vescovo ai frati (in questo caso non sarebbe potuta nascere alcuna vertenza) ma solo affidati per la loro amministrazione e allo scopo di essere “adeguatamente conservati e tutelati”, in una sorta di conferimento in custodia e non certo allo scopo di venderli o comunque cederne la proprietà".
E questa volontà del vescovo De Riso, peraltro sottoposta alla preventiva approvazione dei padri Moderatori dell’Ordine Cappuccino, trova conferma al punto 5 della Bolla, laddove il presule scrive che “se un giorno l’Ordine dei Cappuccini […] per comando degli stessi Superiori dell’Ordine, pensasse di rinunciare, allora stabiliamo - evidenziano - che tutte le cose ritornino come prima, senza nessuna eccezione o diminuzione” e che “in questa ipotesi, il Vescovo pro tempore, per la sua autorità, acquisirebbe il pieno possesso con l'ampliamento, con la chiesa, con le proprietà, con tutti i beni mobili ed immobili, con le pertinenze, con le accessibilità ai diritti, quindi rimuovendo chiunque dappertutto come illegittimo e abusivo detentore”.
"Va da sé, quindi, che l’unica modalità che hanno i frati di prelevare beni dal convento e dalla chiesa sia quello di documentarne la provenienza e la proprietà esclusiva dell’Ordine, restando stabilito - concludono - il concetto che il patrimonio mobile che attualmente si trova nei due edifici religiosi è di esclusività della Diocesi catanzarese".
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