di DOMENICO BILOTTI
Forse è davvero tempo di cambiare approccio sulle grandi feste civili di primavera, quelle che designano e disegnano un quadro di rivendicazioni, principi, accadimenti. Esse vanno vissute non in modo plumbeo e ieratico: non siamo la Corea del Nord, dove i culti dinastici della famiglia al comando sostituiscono il calendario. E un approccio melenso o declamativo, per iniziati o per convenzioni retoriche, ha molto fatto male al recepimento collettivo e all'attualità vissuta dei tre grandi festeggiamenti. Si comincia col 25 aprile: una festa di liberazione che nasce dalla resistenza.
E ogni volta che la si festeggia o la si critica o c'è la sindrome del sarcofago da custodire o quella del revisionismo storico improvvisato inaudita altera parte. Sembra quasi faccia masochisticamente moda fare la gara a chi sottodimensiona di più il nostro 25 aprile. Il 25 aprile è il punto di conclusione di un processo politico-militare di almeno due anni attraverso il quale gli italiani superano il ventennio fascista - verso il quale, almeno in alcuni periodi, il consenso fu a turno alto, strumentale o imposto. Le "resistenze" non sono mai giochi a somma zero: implicano un conflitto, va letto, va studiato, va restituito senza chiavi ireniche o ipocrite, ma quelle resistenze vanno riconosciute. La norma di chiusura della loro rilettura storiografica è porne a base l'avvenimento, il significato, la carica. Che poi la resistenza sia stata usurpata dal cerimoniale, è cosa nota. Che molti dei quadri di impresa e di dirigenza pubblica, fino al momento prima compatti nello Stato corporativo, siano passati finanche con un certo ipocrita trionfalismo nel nuovo ordinamento repubblicano è un fatto vero, acclarato, dimostrabile.
In nulla toglie però il valore civile del tempo: si vive meglio in un ordinamento di libertà politiche e sociali riconosciute, che non in un sistema gerarchico e accentrato dove il partito si salda allo Stato, dove esiste legislazione razziale, dove gli strumenti della segregazione e della coazione sono violenti e legiferati.
Anche l'1 maggio è una festa fondamentale che ha subito delle contrazioni pesanti nella percezione pubblica. Nel pregresso, sicuramente il confederalismo sindacale, anche nel pieno degli anni Settanta, ha dimostrato di avere atteggiamenti talora ambigui, ora proclivi al governo, ora proclivi alla grande impresa, e tuttavia un sistema senza libertà sindacale e senza organizzazione sindacale è un sistema monco, indecoroso, incapace di garantire la dignità.
Ce lo insegnano le lavoratrici e i lavoratori di Amazon; ce lo insegnano le agitazioni per carovita e orari di lavoro in Pakistan, in India, in Cina. Ce lo insegnano ancora più prepotentemente i tentativi - non sempre riuscitissimi: ma la sproporzione di mezzi è omicida - di organizzare il lavoro dei migranti irregolari nella coltivazione, quello dei rider che sono stati la spina dorsale della economia di scambio nel lockdown, del precariato cognitivo come nei servizi di telefonia. Tutti soggetti nuovi, tutte categorie "scomposte", segmentati, alle quali la sinistra istituzionale (che pure sarebbe potuta apparire loro primo interlocutore) non è andata incontro a dovere. Ciò non sposta di una virgola il significato di una festa per cui è ben più che lecito anche andare al mare, pasteggiare in famiglia, vivere la vita, perché il senso più alto di quella festa è che il profitto non può travolgere la produzione, la produzione non può travolgere il lavoro, il lavoro non può travolgere la vita.
Anche il 2 giugno, festa della Repubblica, è una festa sulla quale pende o il primo vero tormentone delle allerte traffico o quel revisionismo da social, da tweet, da battuta boiarda, ribalda, scollacciata, sulla sua presunta inutilità. Ci fu un referendum per stabilire se gli italiani preferissero la repubblica o la monarchia; anche spiriti liberi e genuini votarono la seconda: i referendum si fanno proprio perché si sa che è più probabile finiscano 51 a 49 (finì grossomodo 54 a 46) e non 100 a zero. E ora qualche arruffapopolo con la pappagorgia ci ricorda dei brogli, in specie al Sud, per obliterare la vittoria delle istituzioni repubblicane. Bene, bravi, bis. Questi espertissimi tuttavia dimenticano che il dibattito, anche nel pieno del nostro Mezzogiorno, fu enormemente sincero, accorato, partecipe, conflittuale e che tutto sommato la monarchia come forma di governo poteva persino essere sostenuta politicamente, ma quel casato monarchico in Italia, dagli scontri di Milano del 1898, passando per l'entrata in guerra, passando per le ambiguità del ventennio ... non è che per la causa comune e per quella del Sud nello specifico si sperticò troppo. Tutt'altro: le male pratiche superarono i buoni intendimenti, come annotava, profeticamente ispirato, il grande scrittore siculo Luigi Capuana. Insomma, festeggiamo come ci pare, ma ricordiamo e ricordiamo pure le ombre, ma non specializziamoci a credere che la lunghezza delle ombre sia il nostro alibi per non vedere le luci.
Testata giornalistica registrata presso il tribunale di Catanzaro n. 4 del Registro Stampa del 05/07/2019.
Direttore responsabile: Enzo Cosentino. Direttore editoriale: Stefania Papaleo.
Redazione centrale: Via Cardatori, 9 88100 Catanzaro (CZ).
LaNuovaCalabria | P.Iva 03698240797
Service Provider Aruba S.p.a.
Contattaci: redazione@lanuovacalabria.it
Tel. 0961 873736