di TERESA ALOI
La cosa più difficile sarà elaborare tutta la sofferenza “vissuta”. Vedere morire pazienti in un attimo, senza poter salutare nessuno, o condividere poche e dolorose parole, non sarà facile da dimenticare.
Dal 1999 dirigente medico dell’Ospedale di Lodi e attualmente responsabile dell’Unità di Terapia Subintensiva Respiratoria dell’ASST di Lodi, Mariano Scozzafava, 57 anni, catanzarese di nascita, solo ora, dopo 80 giorni, sta cercando di riprendersi la sua quotidianità. Sta cercando di tornare alla normalità. Con cautela. Da un giorno all’altro, con i suoi colleghi, si è trovato ad affrontare il primo grande focolaio al mondo di Covid-19, escludendo la Cina. Un’emergenza improvvisa, scoppiata violentemente senza che nessuno potesse immaginare le dimensioni. Quella data, il 26 febbraio, che segna la fine della normalità e l’inizio della emergenza, sarà sicuramente segnata in rosso nel calendario dei suoi ricordi. Personali e professionali.
Ricordi che si intrecciano con quelli di Monica, sua moglie, laureata e specializzata in Malattie dell’Apparato respiratorio e anche lei dirigente medico dell’Ospedale di Lodi.
Era con la sua famiglia, Mariano, quando quel 26 febbraio è stato richiamato urgentemente in servizio a Lodi. In vacanza, in montagna, con i due bambini. “Quella notte – racconta - abbiamo attraversato tutto il nord Italia, dal Trentino al Piemonte, per accompagnare dai nonni i nostri figli che da quel giorno non avremmo più visto per settanta giorni”.
Monica, dirigente medico e moglie di Mariano Scozzafava
Settanta lunghi giorni scanditi da numeri, percentuali, odore acre di disinfettante. Di visi impauriti, di parole sussurrate. Di paura, di angoscia. Perché quando si lotta con qualcosa che non si conosce è così.
“Senza rendercene conto ci siamo trovati catapultati nel posto che per primo in Europa ha cercato di ergere una diga contro lo tsunami epidemico CoViD che ci stava investendo. Il reparto di Terapia Semintensiva Respiratoria da me diretto ha infatti moltiplicato il numero dei posti letto da 4 a 24 unitamente al numero dei sistemi di ventilazione e di monitoraggio. In questo modo – spiega - abbiamo sgravato la Rianimazione dalla pressione di un enorme numero di pazienti che venivano ricoverati per una grave forma di insufficienza respiratoria”.
Con lui, oltre alla moglie e ai suoi usuali colleghi, hanno lavorato i medici di altri ospedali lombardi, i medici Militari e i Medici senza Frontiere “senza i quali certamente non avremmo potuto affrontare questa emergenza sanitaria”.
“I pazienti che venivano ricoverati ci guardavano con occhi smarriti e atterriti e non capivano perché eravamo vestiti come dei ghostbusters e perché mettevamo loro sul viso cannule, maschere e caschi per aiutarli a respirare. Anche noi – spiega il dottore Scozzafava - abbiamo sofferto perché dovevamo lavorare in condizioni disagiate, tutti bardati, con mascherine, occhiali, visiere, lunghi camici impermeabili e doppi guanti per cercare di difenderci da questo “nemico invisibile”.
Attimi che si rincorrono, giornate e notti trascorse “in trincea”. Senza un attimo di respiro. Una lotta contro il tempo.
“La cosa che dal punto di vista umano mi ha più segnato è il fatto che questi pazienti, isolati per l’infezione, erano praticamente soli, avvertendo un senso di abbandono perché lontani dall’affetto dei loro cari che non potevano venire a far loro visita, specie nel momento della morte”.
E’ stato per questo che, oltre che a curare i pazienti, i medici hanno cercato di dar loro conforto e speranza facilitando anche il contatto “virtuale” con i parenti attraverso video-chiamate via Skype. Un sorriso, anche se virtuale, a volte è la migliore medicina.
“Ho anche dei bei ricordi – aggiunge Mariano Scozzafava - e tra questi la vicenda di un paziente di 50 anni le cui condizioni, dopo un iniziale miglioramento, si sono complicate improvvisamente con uno pneumotorace (polmone sgonfiato), ma grazie al coraggio professionale del nostro primario di chirurgia che lo ha operato è stato salvato. Adesso sta bene ed è stato dimesso”.
Sono questi i momenti che ti spingono a non mollare. Ad andare avanti. “L’emergenza ora sembra un po’ scemata ed io e Monica – racconta il dottore Scozzafava - abbiamo potuto riabbracciare in nostri amati bambini che finalmente sono rientrati dalla casa dei nonni”.
Attimi di normalità. Di quotidianità. Di quella che va ben oltre l’emergenza.
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