di FRANCO CIMINO
La storia non si occuperà di noi, uomini comuni. Siamo troppo piccolo per lei. Se un giorno però dovesse scriverne, di certo scriverebbe di lui , Francesco Samengo. Per tutti Ciccio, ché nella Calabria della prima metà del secolo scorso i “piccidhri” venivano chiamati Ciccio, Pepé, Totó. Nel modo cioè che faceva tanto bene alla tradizione, alla memoria familiare e al rispetto del padre. La storia è anche racconto tenero e vero delle storie degli uomini. Ciccio Samengo ne avrebbe una solida da farsi scrivere e raccontare. In essa, chi ne scriverebbe a mente fredda, lontano dalle emozioni, rappresenterebbe una grande figura di uomo, una personalità piena e complessa. E, come tutte le grandi personalità, a doppia lettura, luci tante e ombre poche.
Pregi tanti e qualche difetto. Era potente, cioè uomo che ha avuto a che fare con il potere e in quanto tale sarebbe studiato con il massimo della oggettività storica. Io che non potrò esserci quando maturerà il tempo della storia posso, però, dire della cronaca, di un’avventura umana quale a me direttamente risulta. E posso raccontarla a mo’di storia semplice e un po’ romantica, una via di mezzo tra testimonianza e simpatia. Quella di Ciccio Samengo è la narrazione di un viaggio che inizia a Cassano all’Ionio, da sempre un grosso paese della piana cosentina, distante dal mare quel tanto che lo puoi raggiungere in costume da bagno o respirarlo dalle finestre. Cassano è da sempre noto per sua fattività. Chi nasce qui, che decida di viverci o partire, sa che deve darsi da fare. Con lo studio, se ne hai voglia e possibilità, con il resto delle risorse umane comunque, con l’intelligenza, che da quelle parti pare sia propriamente locale, sempre. Tutti in quel paese, oggi cittadina, si danno da fare e in ogni campo.
Ciccio possiede tutte quelle qualità. È intelligente, e da bambino lo notavi attraverso quegli occhi vispi, muoventi su tutto ciò che davvero gli ruotava intorno. Ha energie fisiche e dinamismo, sebbene ambedue nascosti in quel modo di porsi lento e apparentemente pigro. Ha voglia di fare e tanta. Ha ambizione di arrivare e tanta. Ha voglia di studiare, quel tanto che alla sua intelligenza serviva per irrobustirsi e per fare meglio. Aveva soprattutto voglia di muoversi. Da Cassano, innanzitutto. E non per abbandonarla, ma per trovare ciò che il suo paese non gli avrebbe potuto dare. Gli spazi ampi, in particolare. Quelle grandi praterie “ americane” che facevano sognare i ragazzi a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta. Gli anni mitici. Quelli del “ si può fare se vuoi sognare.” E Ciccio ha fatto perché ha sognato. Probabilmente, non ha realizzato tutto ciò che ha sognato, ma di certo ciò che ha potuto e voluto. Ovvero, voluto fare ciò che ha potuto. Nella viva intelligenza di Ciccio c’era infatti il senso del limite. Sognare sì, inseguire il sogno sì, ma fermarsi al limite delle proprie forze e davanti, se nel conflitto, alle forze antagoniste. Non so se a qualcuno ciò egli recitasse come un credo laico. O se l’avesse insegnato ad amici e conoscenti più vicini. Ma, di certo, questa era la sua filosofia, attraverso la quale sembrava essersi dotato un metodo. Che rigorosamente applicava. A iniziare da se stesso.
Per esempio, Ciccio aveva una grande passione politica. Dico di più, aveva una grande intelligenza politica. La passione: da questa aveva tratto anche una certa ambizione, quella di rappresentarla nella classica carriera partitica/istituzionale. Per quella concezione del limite e del metodo su di esso vigilante, l’ambizione dovette limitarla a una non fortunata candidatura al Senato. Ciccio era al massimo del suo prestigio e della popolarità, ma il collegio difficilissimo e le ricorrenti antropologiche invidie e infedeltà ne limitarono l’impatto elettorale. La passione e l’intelligenza politica, però non si scoraggiarono e non si indebolirono. La prima la mantenne accesa sulla Democrazia Cristiana, il partito amato e servito. La seconda la dedicò in gran parte alla sconfinata ammirazione per Carmelo Puija, con Riccardo Misasi, leader indiscusso della politica calabrese e non solo. Da quella ammirazione nacque una profonda amicizia mai venuta meno tra i due. In quella amicizia, Ciccio impiegò lealtà piena e fedeltà certa. E anche la sua capacità strategica di suggerire disegni ed operazioni vincenti, di cui Puija si avvalse molte volte per vincere battaglie difficili.
Quando quella intelligenza dismise, anche per sua volontà oltre che per consiglio “ decidente” del suo grande amico, il sostantivo politica, Ciccio si impegnò nel campo dell’amministrazione dei processi economici e dei progetti correlati, formandosi una competenza straordinaria. Studiò molto quella realtà e con acume straordinario cercò campi nuovi, dove l’intreccio di risorse pubbliche e private potessero inventare strumenti moderni a favore del Mezzogiorno. Ciccio tirò fuori, nelle varie società di cui fece l’amministratore, idee davvero coraggiose e innovative, delle quali spero che qualcuno più informato di me possa dire più avanti. Il tempo passa e gli anni pure, con le stagioni di cui, anni e tempo furono protagonisti. Ciccio no. Non misurò il tempo né contò le stagioni. Passarono stagioni e tempo, ma lui non se ne curò. Aveva voglia di fare ed energie per operare ancora, ché l’intelligenza se c’è mica la si può consegnare all’autunno. Tornò ragazzo e guardò nella linea più avanzata di quella lontana prateria. Vide che c’era ancora una sofferenza più pesante di quella dei Mezzogiorno, d’Italia e d’Europa. Vide più chiaramente un Sud più a Sud di tutti i Sud del mondo. Era quello in cui per mancanza di cibo muoiono ogni giorno decine di migliaia di bambini.
Non era più tollerabile quell’offesa contro l’umanità e contro Dio. Prese, allora, tutto ciò che aveva, il suo cuore e il tempo che gli rimaneva, e dopo il suo più che ventennale volontariato, dedicò ogni energie all’Unicef. I suoi due anni intensi di presidenza nazionale sono anch’essi da raccontare a parte. Spero, da quelle fatiche, qualcuno lo faccia. Resta a me di dire solo due cose non perché non ne abbia ancora tante. Sono la sua forza e la sua eleganza. Alto, come sembrava più di quanto fisicamente non lo fosse, dava la sensazione che nulla potesse finirlo. Dove non potereno fatiche, dispiaceri e sofferenze, che non gli sono mancato, potè il Covid Ed esso potè, perché invisibile e armato, Ciccio non lo potette affrontare guardandolo in faccia. Un tradimento inatteso. La sua eleganza era fine. Colpiva anche questa. Abiti belli e classicheggianti su colori quasi mai, se non per le grandi occasioni, scuri. Prediligeva lo “spezzato”, come usa chiamare l’abbinamento di giacca e pantalone di diverso taglio e colore. Amava molto le sciarpe, rigorosamente cachemire, e quei soprabiti diversi che andavano dal loden agli impermeabili rigorosamente Burberry.
Nel taschino della giacca la pochette. Li portava tutti bene, nonostante con gli anni il suo corpo un poco modificava. Gli era facile anche questo per la naturale eleganza della sua persona. Ciccio era educato, rispettoso, le sue buone maniere si accompagnavano anche a un un parlare piano e composto e a una gestualità signorile. Il tutto arricchito da una fine ironia, un misto tra l’inglese e la cosentina, con la quale sdrammatizzava situazioni pesanti e da tutti si faceva accettare. Da molti anche benvolere. Tra molti amici tanto amare.
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