di FRANCO CIMINO
Mio padre diceva:” cù’ pocu ha caru ha”. È, questo, un famoso detto della filosofia popolare, la più antica e la più vicina alla vita delle persone. Tutte. Specialmente, le più umili e semplici. Le ignoranti, cioè, del non aver potuto conoscere la scuola né le letture, ché a quei tempi il pane per la famiglia veniva prima dei libri per se stessi. Catanzaro indossa questo pensiero come un calzino, la maglia di lana d’inverno. Ha poco ma di molto prezioso. È solo che non lo conosce, non lo riconosce, lo nasconde e lo trascura. In tutt’altre faccende affaccendata, la nostra Città non si accorge “ do pocu caru chi ha.
”Mario Foglietti è uno di questi beni, purtroppo perduto cinque anni fa esatti a causa della morte che, non ancora vecchio, quasi di sorpresa l’ha colto. Eppure, quest’uomo bello e rigoroso, estroverso e timido, dalla mente robusta e dalle mani tenere, dal pensiero profondo e dai gesti semplici, aristocratico e popolare, romano de Roma e Catanzarese dei vicoli stretti, nouvelle cuisine e morzedru, elegante nell’abito e nella persona e insieme e scanzonato e giocherellone, colto dal linguaggio forbito e “parolacciaru” della più genuina specie, serio e pazzerellone, uomo del mondo globale e “giuvana da ruga”, giramondo appagato e gaudente assetato di vita e di godimento, realista e ottimista, intellettuale e popolano, scrittore e zappatore, marinaio e “marinaru”, quest’uomo di una bellezza greca ci manca.
Potrei ancora aggettivare la sua persona e colorare dei suoi colori la sua personalità, anche professionale, tanto complessa quanto completa, apparentemente tanto duale o contraddittoria quanto piena e ricca di ogni vastità, dove anche quei tratti riconoscibili come difetti( la facile incazzatura con il relativo più rapido vaffa, per esempio) in lui diventano un’altra cosa. Anche comprensibile quando fuoriescono dalla sua profonda sensibilità e dalla sua preoccupazione di far bene i compiti e i ruoli assegnategli o dal suo sincero dolore di vedere i danni provocati alla Catanzaro del suo definitivo ritorno dal disamore dei suoi cittadini e dalla irresponsabilità “ interessata” delle sue classi dirigenti( “ma quali classi dirigenti ca su dui perriccottari”! direbbe lui). Mi fermo a questo volume di parole, ché fa solo che basta a significare l’enorme perdita e il profondo sentire la sua mancanza. È vero che nessuna persona è insostituibile e neppure in qualche modo replicabile, ma Mario Foglietti resta lontanissimo da ogni risibile “ copiatura” di chi provasse a imitarlo o a tentare di essere come lui.
Cosa manca di Foglietti a tutti noi? Manca il suo stile di gran signore della cultura e di principe del Teatro. Manca il suo sapere vasto e la sua vera conoscenza in ogni campo della cultura. E, in particolare, di ciò che è spettacolo e spettacolo crea e valorizza nelle forme più originali, ché Mario non è mai stato una sorta di promoter o di organizzatore di calendari preconfezionati altrove, come avviene in molti teatri italiani. Foglietti era uno stimolatore di cultura, un formatore di sensibilità artistica, un sollecitatore di coscienza civile. Il suo Teatro era come la sua televisione, lo spazio cioè della ricerca coraggiosa degli occhi e del cuore della gente per portarli sulla vita vera. Quella che scorre attraverso le voci e le immagini del reale e sulle quattro tavole, dove la vita vissuta è inventata per fartela sentire in petto e nella testa quando, per incultura e insensibilità, te ne fossi allontanato. I suoi cartelloni erano coraggiosi. Non inseguiva il facile consenso e neppure il tintinnare del botteghino sebbene non ne trascurasse le ragioni.
Il Teatro doveva divertire sì, svagare e distrarre, sì, ma non senza aver prodotto la riflessione e la domanda nello spettatore. Insomma-per rubare un’immagine un po’ semplicistica- pur considerando buona, di certo rispettabile, la canzone di Orietta Berti o di Gigi D’Alessio, da De Gregori, De Andrè, Vecchioni a scendere, è meglio. Nel suo Teatro, nazionale internazionale, doveva trovare dignitoso posto anche il teatro calabrese e e le creazioni teatrali e musicali della nostra regione, che artisti di valore trovano sempre più difficile far conoscere e affermare. Per fortuna che da qualche anno c’è il nostro Comunale con la sua intelligente generosità e la più generosa creatività a fare questo lavoro prezioso. Mario non ha fatto in tempo, purtroppo, a sviluppare questa sua idea e a rendere stabile la presenza del teatro calabrese nelle sue programmazioni. Foglietti era anche il Politeama. Credo che pochi sovrintendenti in Italia abbiano avuto la forza e la classe di identificarsi con il teatro che hanno diretto, come l’ha avuta Mario.
A cinque anni dalla scomparsa, ancora si sente la sua presenza. Ancora, quando vi entri, ne trovi il suo sorriso dolce e rassicurante. E accogliente. Ancora lo vedi, nelle sere delle rappresentazioni, in quell’abito classico sempre scuro, rigidamente corredato da splendide cravatte e dalla ancora più rigorosa camicia bianca o, con stile proprio, diversificata dal colore di colletto e polsini, questi sempre chiusi da raffinati polsini. Era vanitoso, Mario? Certamente. E di quella vanità tra il femminile e il maschile, che fa più belli e più affascinanti. Ma quella sua eleganza, diceva un qualcosa in più. Piccola piccola e semplice semplice.
Diceva che il Teatro è come un tempio, una chiesa, un parlamento, un festa importante, che si devono celebrare anche con un abito “ speciale”, cioè non quotidiano. Un abito, che se non fa il monaco si fa sicuramente gesto di particolare riconoscimento di quella solennità verso cui ci si sente onorati. E grati. Perché il Teatro, ogni teatro, è la casa di tutti.
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