di FRANCO CIMINO
Quella mattina di cinque anni fa, me la ricordo ancora. Chiaramente. Quel sette maggio era esattamente una giornata come questa. Di primavera incerta, dall’aria sospesa. C’era il sole e questo vento nostro, che ti fa sentire freddo se non sei coperto bene.
L’unica cosa che non ricordo è la persona o la voce a un telefono che mi dava la notizia che non solo mai avrei voluto sapere, ma quella che di certo non mi sarei aspettato: “ E morto Quirino.” Rimasi senza fiato, la mia sensibilità colse subito, ma non ne occorreva molto, la portata del dramma. Un dramma che non era solo dei due figli da lui amati alla follia “ meridionale” o dei suoi più cari amici, in particolare quelli che lui amava di più, dei suoi compagni di partito, quei pochi comunisti rimasti orgogliosamente tali, come lui, testardi e romantici, come lui, con la bandiera rossa a fasciargli il petto e l’inno dell’Internazionale trattenuto in gola.
Un dramma che era non solo quello dei suoi eroici braccianti e degli operai, ancora tutti a bassa paga e ad alto costo della salute quando non della vita. I diseredati e gli sfruttati, cioè, del terzo millennio, ancora più poveri perché privati della forza del loro sindacato e di quella, prorompente e fiduciosa, del più grande partito comunista. Quel partito a cui rimase fedele e la cui cancellazione dalle scene politiche, lui e quei suoi quattro amici come lui, non perdonarono mai a chi commise quel (mis)fatto. E in quel modo troppo frettoloso e schizofrenico, la cosa che ancora lo faceva arrabbiare. La mia sensibilità colse un dramma più largo ancora di questa immensa superficie umana, quello della Calabria intera. Maggiormente della nostra Città, alla quale lui, culturalmente cosmopolita e sardo fino al midollo oltre che conoscitore di tutti i quattrocentonove comuni calabresi, si legava sempre più, raggiungendo più spesso, muovendo pigramente dal suo “ eremo” di rione Corvo, il Centro Storico, e non più soltanto la sua amata Marina, dove più facilmente poteva incontrare “ i compagni”.
Quella morte aprì subito davanti a me una voragine dentro la quale, inquietante, s’agitava una domanda: “ e adesso chi farà le battaglie che nessuno vuol più fare, oltre quei soliti pochi pazzi, a difesa del territorio dalle rapine dei ladri di bellezza e dalla resistente speculazione edilizia? O quelle per la tutela e valorizzazione dei beni culturali e dei siti archeologici e del vasto, ma sconosciuto, patrimonio culturale calabrese? Chi, dopo Mimì Minniti, le battaglie per l’energia pulita e la pulizia dell’ambiente ovvero, sempre con quei tre pazzi, dei palazzi storici del Capoluogo, come quello, per esempio dell’Ospedale Militare, l’antico complesso monumentale recuperato alla proprietà del Comune proprio da lui? Chi avrebbe più gridato con la sua voce ferma e squillante il No convinto e coerente contro le mafie e la’ndrangheta in particolare? E come avremmo potuto più sentirci rassicurati, senza di lui, da una lotta contro la corruzione, a partire da quella della parola che è l’ipocrisia e il doppio costume? Una battaglia, questa, che lui faceva da sempre, inneggiando alla Politica e al sano scontro ideologico quale antidoto più efficace, insieme allo studio e alla conoscenza, per debellare la criminalità organizzata prima ancora che divenga materia per i magistrati.
E, infine, il dramma anche mio, sebbene minuscolo davanti ai suddetti, quello di un democristiano che gli era diventato amico per aver percorso molte di quelle sue battaglie, lui trovandomi sempre accanto o nello stesso campo. Un amico con il quale parlare, in piena libertà di pensiero, nella ricerca comune di quegli orizzonti in cui i colori diversi delle nostre bandiere coloravano quella magica linea che si vede in fondo al nostro sguardo, dove il cielo e il mare diventano una sola cosa. Come gli esseri umani, la giustizia, l’uguaglianza, la libertà, la pace.
Era un uomo aperto Quirino e, dietro le sue granitiche certezze, un cercatore di verità. Per questo, uno dei suoi migliori amici, azzarderei nel dire il migliore, fu mons Antonio Cantisani, il vescovo per trent’anni di questa diocesi. Sentire Cantisani parlare di Quirino, come egli fece nei giorni della morte e ancora oggi, il cuore si riempie di lacrime e di gioia. Quirino era un grande politico, anche. Ma di questo non voglio parlare per non scadere nelle cose già dette, tra l’altro scontate dentro la sua storia personale.
Una storia avvincente, entusiasmante per chi la leggesse. Una sorta di manuale pedagogico per chi volesse fare la buona politica. A me Quirino è rimasto nel cuore. E sempre a chiunque parlerei di quest’uomo buono e intelligente, esperto e ingenuo, sentimentale e appassionato, come tutti gli idealisti lo sono. Parlerei di quella sua eleganza originale, sempre ordinata e fine, e di quel vezzo da “ culistru” di sostituire le cravatte con i foulard dentro il collo aperto della camicia. Parlerei di quel sorriso aperto anche sull’ironia. E di quegli occhi brillanti che dietro i suoi insostituibili occhiali, guardavano il mondo come un bambino che sogna.
Un rivoluzionario che fermamente crede. Quella mattina di cinque anni fa, era una mattina come questa. C’era il sole e il vento. Quel sole è rimasto nelle cose che di quel sognatore, utopista e rivoluzionario, qui si sono fortemente impresse. Quel vento è tornato, ma senza Quirino. Se l’è portato con sé quel giorno. Io so dove.
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