di FRANCO CIMINO
Scendeva, non si sa da dove, ogni giorno sul Corso con quelle due gambe di legno a reggere le sue indebolite da qualcosa che non conoscevano. Due tre volte al giorno lo si incontrava.
Tutti lo si incontrava. Lui non faceva nulla per nascondersi ed anzi rumoreggiava, a modo suo, per farsi vedere. La nostra città è percorribile in quel ritmato saliscendi, che le auto costringe a cambiare frequentemente marcia e le gambe del camminare a indurirsi e a liberarsi continuamente, fino a farsi male salendo o a rischiare di cadere scendendo. Lui no, con quei pesanti arnesi sotto le ascelle, che gli allargavano il petto facendolo simile a quello di un atleta, andava e veniva con una velocità incredibile.
Su e giù, ininterrottamente. Come se avesse un appuntamento e fretta di arrivare. Qualche volta si fermava e non perché fosse stanco, non era possibile che lo fosse. Ma come un treno alle fermate stabilite. Come se aspettasse qualcuno o avesse appuntamento con qualcosa.
La fermata principale era le Poste centrali. Un metro dopo l’ingresso principale, davanti al muretto su cui si appoggiava. Per prendere un attimo di fiato e perché chiunque entrasse e uscisse da quell’ufficio necessario “ necessariamente” lo vedesse. Chi non lo vedeva o per distrazione o perché facesse finta di non vederlo, non avrebbe potuto evitarlo, ché lui “ irrompeva” innanzi con una vitalità straordinaria (mai disturbante, però) e da lontano si faceva sentire con quella sua voce da bambino ‘mbrhahafatu”, inconfondibile. La voce sua, che talvolta si faceva richiesta di qualcosa (u cafè? il prestito centesimale? un attimo di attenzione soltanto?), altre volte canzone, altre volte ancora battuta polemica, anche dura, contro ciò che lui, più di tutti gli altri, vedeva non andasse bene nella sua città.
La Città che amava tanto, più di tutti noi e alla cui vita di tradizione e cultura antica partecipava senza mai mancare a un evento, dalle processioni alle partite di pallone. Ecco, i giallorossi, dei cui colori spesso si vestiva, erano l’altro amore pieno, irriducibile, irrinunciabile. Quello che dava alla passione il fuoco giusto per riscaldarlo nelle sere d’inverno in giro per le vie e le ali per sognare un’altra vita, ovunque dovesse portarlo. Il suo muoversi agitato dava la certezza che egli cercasse compagnia o volesse ridurre la solitudine. La solitudine degli ultimi, degli esclusi, dei diversi, era di certo la sua vera malattia. La più dolorosa per una personalità, come la sua, di certo lucida e intelligente.
Solitudine e sensibilità, intelligenza e lucidità, mai riconosciute in una società in cui “ u zoppu on camina” e se è pure povero “on ‘bala nenta”. Insomma, se sei menomato in qualcosa che abbia a che fare con la condizione sociale, sei scartato o trattato come l’immancabile “scemo del villaggio”. Il normale voluto diverso per far sentire i mediocri dell’umanità superiori a qualcuno. Invece, lui cercava aiuto alla sua Città. Era, forse, l’unico dei suoi ottantamila che amandola sinceramente nutrisse grande fiducia in lei, donna, madre, sorella, amica, sposa.
Franco Contino è andato via così, in silenzio. All’incontrario di come è vissuto. Questa volta non si è voluto far vedere. Quel sogno di una vita diversa se l’è voluto godere da solo. Alla Città, che troppo tardi facilmente si commuove per il riconoscimento postumo di un dolore, lascia non il suo rimpianto, e il rimpianto di sé, ma quel sottile senso di colpa per non averlo visto e non avergli parlato, quando egli altro non chiedeva che questo. Essere per un momento catanzarese a Catanzaro, oltre il suo testardo modo di voler essere catanzarese a Catanzaro.
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