In trincea nel cuore dell'epidemia: la storia del catanzarese Giuseppe Gualtieri, da Davoli a Pavia da 35 anni: "E' stato uno Tsunami"

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images In trincea nel cuore dell'epidemia: la storia del catanzarese Giuseppe Gualtieri, da Davoli a Pavia da 35 anni: "E' stato uno Tsunami"
Giuseppe Gualtieri
  16 maggio 2020 14:37

di EDOARDO CORASANITI

Alla fine della corsa anche i maratoneti più allenati accusano un po’ di stanchezza fisica. Se però in Lombardia ci si sta davvero avvicinando al traguardo, questo ancora non è dato saperlo. Quello che è certo è che Giuseppe Gualtieri, 63 anni, medico del reparto di Pneumologia nell’ospedale Policlinico San Matteo di Pavia, da oltre tre mesi combatte con tutte le sue forze e con quelle dei suoi colleghi per sconfiggere o arginare il Coronavirus.

Il dottore Gualtieri è nato a Davoli, in provincia di Catanzaro, e dal 1975 vive a Pavia (ora nel Comune di Gropello Carioli), dove prima ha studiato e poi ha iniziato a muovere i primi passi nell’ospedale della stessa città lombarda.
Una lunga carriera che a febbraio scorso si è impattata con il Covid-19, sconvolgendo la vita di tutti gli operatori sanitari e di tutto il Paese che ha assistito ad una pandemia senza precedenti.

Il medico dalle fiere origini calabresi ammette che ora la stanchezza fisica si fa sentire, ma anche sul piano psicologico è stata dura. “Purtroppo, alla morte dei nostri pazienti eravamo abituati, ma questa volta è stato diverso: loro morivano lì, da soli, senza nessuno, senza nessun parente, da soli con noi medici. Venivano avvolti in un lenzuolo ed in un sacco nero”. Uno scenario difficile da digerire, per lui e per i suoi colleghi, che nei periodi di massima intensità hanno organizzato un servizio di telefonata ai parenti per aggiornarli, nel bene o nel male, su cosa accadesse ai propri cari. L’ospedale, quasi interamente riconvertito a centro covid, era off limits e la possibilità di permettere visite era impossibile da praticare.

In Lombardia la situazione è un po’ migliorata, anche se la guardia rimane ancora alta. Ma quello che è accaduto “non lo potevamo nemmeno immaginare”, sottolinea Gualtieri, che nei mesi di maggiore intensità ha sforato i soliti orari di lavoro. Tempo per riposare (e a volte per mangiare o bere) non ce n’era.

Un pensiero alla Calabria, a Davoli, quel paese mai scordato e luogo di visita ogni estate con la sua famiglia dai parenti ed amici che conserva nel cuore.

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Qui il suo racconto dei giorni del Coronavirus.

“Partiamo poi dalle notizie positive, la situazione in ospedale è sicuramente molto migliorata, i ricoveri sono molto diminuiti, su tre reparti uno è stato riaperto e sanificato per le degenze ordinarie, mentre due sono rimasti per i pazienti Covid nei quali ci alterniamo. Siamo tornati a poter garantire un’assistenza adeguata senza angoscia. Tanto che quello che vi racconterò, seppur presente in modo indelebile nella mia mente, sembra però già molto lontano, ovviamente sappiamo che non è finita, ma speriamo che tutto prosegua per il meglio, anche se certezze non ne abbiamo e c’è ancora tanto da fare. Il tutto è cominciato un pomeriggio di sabato 22 febbraio quando in pieno relax è arrivato un Whatsapp dal nostro direttore che aveva creato un gruppo chiamato unità di crisi coronavirus, ci informava che aveva avuto una riunione urgente con i vertici dell’ospedale e che indiceva una riunione urgente per tutti quelli che potevano partecipare perché era un successo un casino all’ospedale di Codogno.  Nella riunione venivamo informati della situazione di emergenza all’ospedale di Codogno dove c’erano stati i primi casi di coronavirus e tanti sanitari si erano infettati perché presi alla sprovvista e attraverso le direzioni veniva chiesto il nostro aiuto nello stesso tempo per domenica 23 ci veniva chiesto di liberare almeno un reparto.

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Durante la notte di sabato il mio Collega di turno mi chiama perché era arrivata la segnalazione di un caso positivo nel nostro reparto (Nel laboratorio di virologia si lavorava già H24), per cui lui doveva essere sostituito. Timbro mio di entrata ore 1.30, uscita ore 16,30 del 23 febbraio, avevamo dimesso tutti i pazienti di un reparto. Ed era solo l’inizio. Nei giorni successivi liberiamo un secondo reparto e, quindi, anche il terzo (dimessi o sistemati in altri reparti o ospedali, in pochi giorni, 45 pazienti).

Per gestire il flusso di pazienti è stata creata una nuova figura il Bed-manager.

Dal Pronto soccorso ci arrivano pazienti distrutti nello spirito e nel fisico la maggior parte di loro in attesa   di un posto letto avevano passato in PS due tre anche quattro giorni i più fortunati su un lettino altri su una poltrona i meno fortunati su una sedia perché in fretta e furia era stato attivato un PS in malattie infettive dedicato solo a questi malati e quindi ancora tutto da sistemare.

 Nei reparti cerchiamo di fare del nostro meglio per lenire le sofferenze di questi sfortunati, tanti hanno la febbre alta, mancanza di respiro, hanno sete.

Dal punto di vista della terapia confusione totale non ci sono linee guida quello che va bene oggi viene smentito domani. Il punto fermo rimane il supporto ventilatorio che permette almeno di guadagnare tempo.

 Il presidio più usato è il casco ma è difficile da tollerare per tanto tempo tanti tentano di strapparselo ma questo equivale andare incontro a morte certa, gli alti flussi di ossigeno asciugano le vie aeree per questo insieme agli infermieri che da soli non si fidano a togliere il casco passiamo almeno per dare da bere con grande sollievo per i nostri pazienti.

 Le ore più lunghe sono quelle della notte, hanno sonno ma hanno paura di addormentarsi per paura di non risvegliarsi ci chiedono con un filo di voce e con le lacrime agli occhi, ma se mi addormento voi passate a controllare certo che si rispondevamo e lo facevamo.

 Abbiamo imparato in fretta a usare i dispositivi di protezione la fase più difficile era la svestizione per il terrore di sbagliare e quindi infettarci e ancor peggio portare il contagio a casa.

 Durante i lunghi turni di 12 ore di notte e di giorno soffrivamo la sete, non la fame, al massimo un sorso d’acqua con la cannuccia, perché altrimenti ci scappava la pipì e questo voleva dire doversi svestire e sprecare i dispositivi.

A tale proposito devo dire la verità in policlinico non ci sono mai mancati, ci veniva solo chiesto di non sprecarli di usarli con buon senso e questo lo facevamo volentieri.

 Le prime due settimane abbiamo avuto parecchi decessi, e nonostante faccio questo lavoro ormai da 34 anni sempre in corsia è stato veramente dura avvilente veder morire così tante persone da sole senza la presenza di una persona cara che potesse tenergli la mano fargli una carezza, veramente avevano solo noi  medici e infermieri ma con tutta la nostra buona volontà non potevamo certo sostituire le loro più care persone le nostre mani poi erano fredde perché coperte da due paia di guanti non potevano certo sentire il calore umano. Dopo il decesso venivano messi in fretta in un sacco nero e portati via come spazzatura.

 Naturalmente poi c’era da avvisare il familiare tante volte nel cuore della notte, immaginate con quale stato d’animo affrontavamo il colloquio, ma come è morto ha sofferto ecc. Morivano cercando aria, quello che potevamo fare era sedarli il più possibile anche se questo accelerava il decesso ma almeno era un passaggio più sereno.

Le cose più brutte accadono sempre di notte e all’inizio ci siamo trovati più volte ad avere pazienti con il casco che non si gonfiava perché non arrivava ossigeno a sufficienza, quindi spostare al volo il malato in un’altra stanza con la speranza che andasse meglio mentre il malato chiedeva aiuto. Arrivavano tempestivamente i tecnici ma non capivano la portata doveva essere sufficiente, poi si è capito che il problema non era nei tubi principali ma alla fine nelle stanze quando si mettevano due ammalati con alto flusso l’ossigeno non bastava abbiamo quindi imparato a disporli in modo diverso.

A turno ci mettevamo al telefono tutti i giorni con i parenti per dare notizie dei loro cari, naturalmente erano notizie molto diverse, io cercavo di dare prima le buone notizie per caricarmi un po’ e poi quelle cattive, dall’altra parte lacrime di gioia o di dolore.

Alle notizie più cattive si avvertiva chiaramente la disperazione di non poter essere vicini alla mamma al papà, alla moglie al marito. Sa dottore, è stato un buon padre o una buona madre e non potergli stare vicino mi distrugge, ci affidiamo a voi che il signore vi benedica. Eravamo nei pensieri e nelle preghiere di tanta gente di tanti parroci e anche di Sua Santità Papa Francesco e questo ci ha molto aiutato.

Tanta gente ci è stata vicino in altro modo, portandoci generi di conforto, dalla pizza alle colombe Pasquali, pensate però che la più apprezzata è stata la crema per le mani, dopo 12 ore di doppi guanti le mani sembrano lessate.

Un momento particolare per me era anche il viaggio in macchina quando andavo a fare la notte, non sapevo cosa mi aspettava assorto nei miei pensieri le strade deserte era tutto cosi surreale che non mi sembrava vero.

Dopo le prime due settimane terribili abbiamo cominciato ad avere le prime dimissione di gente guarita, con grande gioia ed emozione di tutti, la cosa più bella era entrare in camera e trovare le persone con la borsa pronta per andare a casa, volevano abbracciarci ma non potevano, continuavano a ringraziarci, dicendo che anche se non avevano mai visto la nostra faccia non ci avrebbero mai dimenticati, praticamente avevano visto solo gli occhi ma qualcuno ci ha detto che aveva capito che di quegli occhi si poteva fidare.

Spesso neanche alla dimissione c’erano i parenti perché tanti erano in quarantena, ma il policlinico ha attivato un centro di dimissione assistita a cui noi inoltravamo la richiesta e loro organizzavano il ritorno a casa in ambulanza gratis grazie al lavoro dei tanti volontari.

 In questa triste occasione il nostro ospedale si è rivelato fondamentale per la nostra zona, ma anche e soprattutto per i malati di Codogno, Lodi, Cremona, dove si sono ammalati molti medici e infermieri e interi reparti e PS sono rimasti letteralmente sguarniti.

Nel nostro ospedale i contagi tra i sanitari sono stati molto contenuti, nella mia clinica nessun medico e solo due infermieri, marito e moglie, naturalmente grazie ai presidi di protezione e al loro buon uso.

In poche ore, non in pochi giorni, sono stati creati più di 20 nuovi posti di terapia intensiva e 30 di sub-intensiva dalla sera alla mattina con muratori idraulici elettricisti e tecnici del Policlinico, che hanno lavorato giorno e notte e tante altre persone per spostare interi reparti. Purtroppo, non sono stati sufficienti e tante persone non hanno potuto usufruire di questa ultima possibilità. Spiace dirlo, ma non si può negare che la scelta è stata fatta in base all’età e alla presenza di patologie concomitanti più o meno gravi. Mai nella mia vita ero stato costretto a fare scelte simili. È stato molto pesante e doloroso e qualche goccina di Valium è stato necessario mandarla giù.

In tutto questo il nostro ospedale San Matteo ne esce sicuramente a testa alta, arricchito e rafforzato nel suo patrimonio umano e strutturale, parlo in particolare per la mia clinica, che è quella che ovviamente conosco a fondo, dove nessuno si è tirato indietro, medici, infermieri, giovani e giovanissimi specializzandi, si è rivelato un gruppo granitico dove, se qualcuno aveva un momento di difficoltà, veniva prontamente aiutato da chi gli stava accanto e per me è un onore farne parte e sono orgoglioso di aver dato il mio contributo.

Lo stesso purtroppo non si può dire delle assistenti che hanno lasciato letteralmente da soli i medici di base, i quali nel numero totale  degli operatori sanitari morti hanno certamente pagato un prezzo molto alto, abbandonate a se stesse le RSA, dove si è consumata una vera e propria strage, io sono stato presidente dell’RSA di Gropello e quando c’era da cercare il pelo nell’uovo arrivavano in forza in questa occasione, so per certo che non si è visto nessuno, per non correre rischi hanno preferito rintanarsi nei loro uffici, adesso sono alla ricerca di un capro espiatorio che sicuramente troveranno in chi era comunque sul campo e ha cercato di fare quello che poteva con il personale e con i mezzi che aveva a disposizione.

La Lombardia è stata investita da uno Tsunami, ci saranno stati degli errori, ma trovo ingeneroso verso tutti gli attacchi ovviamente a sfondo politico che in questi giorni gli vengono rivolti, credo che anche la sanità privata ha fatto la Sua parte, per esempio la Maugeri, nella fase iniziale in cui bisognava svuotare i reparti, ha accolto tanti nostri pazienti e un mio carissimo amico d’infanzia lotta per la vita in rianimazione all’Humanitas.

Non oso pensare cosa sarebbe successo in altre regioni, per prima la mia Calabria, dove per esempio in tutta la regione c’erano solo 100 posti di terapia intensiva, o in altre regioni dove i Governatori parlano senza sapere da quale tragedia sono stati risparmiati, almeno per ora, e speriamo anche per il futuro.  Io credo che abbiamo dimostrato di essere un grande paese, solidale, anche se spesso ci piangiamo addosso, nei momenti del bisogno sappiamo rimboccarci le maniche”.

 

 

 

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