di MARILINA INTRIERI
A dieci giorni dalle elezioni la commissione parlamentare antimafia ha reso noti tre nomi di candidati alle regionali calabresi dichiarati “impresentabili”: Orlando Fazzolari (Noi Moderati), Filomena Greco (Casa Riformista – Italia Viva) e Orlandino Greco (Lega).
E’ una segnalazione che non produce effetti giuridici, ma che nella pratica pesa come un marchio politico-mediatico, capace di condizionare la campagna elettorale e l’immagine pubblica.
Nato come strumento di moral suasion, il codice di autoregolamentazione delle candidature, approvato dalla Commissione Antimafia sui criteri di candidabilità in relazione alla situazione giuridica dei vari soggetti è molto più restrittivo delle leggi vigenti in quanto amplia l’incandidabilità anche soggetti sottoposti a giudizio a condannati in primo grado o a misure di prevenzione personali o patrimoniali trasformandosi in un oggetto politico non identificato. Non ha valore di legge eppure incide in maniera decisiva sulla vita dei partiti e dei candidati.
L’intento originario era chiaro: tenere fuori dalle liste soggetti sottoposti a processi per mafia e corruzione. Ma col tempo il codice ha assunto una funzione diversa: ampliare surrettiziamente i casi di incandidabilità oltre quelli fissati dalla legge Severino (D.lgs. 235/2012), che rimane l’unico parametro normativo.
La Costituzione è inequivocabile. L’art. 51 riconosce a tutti i cittadini il diritto di accedere alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza; l’art. 27 tutela la presunzione di innocenza fino a condanna definitiva; l’art. 3 vieta discriminazioni non fondate sulla legge. Nella pratica, invece, il codice Antimafia introduce una forma di responsabilità etico-politica affidata a un organo parlamentare. Chi, regolarmente ammesso e candidato, viene segnalato come “non conforme” resta formalmente in lista, ma parte svantaggiato: stigmatizzato dai media, delegittimato agli occhi degli elettori, posto in condizioni di disparità rispetto agli altri concorrenti.
La dottrina lo definisce una sanzione politica impropria: non incide giuridicamente, ma produce un effetto reale di esclusione. È il paradosso dei candidati “eguali ma dispari” che mina la parità delle condizioni di partenza, base di ogni competizione democratica. La Corte costituzionale ha più volte ribadito (sentenze 141/1996, 25/2002, 236/2015, 35/2017, 76/2023) che le restrizioni ai diritti politici possono essere introdotte solo dalla legge e devono rispettare il principio di proporzionalità.
Il codice Antimafia resta dunque una zona grigia: nato per rafforzare l’etica pubblica, oggi rischia di trasformarsi in un’arma politica. Se l’obiettivo è garantire liste “pulite”, la strada è una sola: farlo attraverso la legge, con regole uguali per tutti e sotto il controllo dei tribunali. Diversamente, si rischia di indebolire, anziché rafforzare, la democrazia.
A rendere il quadro più delicato c’è un dato che riguarda la realtà giudiziaria italiana e quella calabrese. Gran parte delle indagini e dei processi avviati contro esponenti politici negli ultimi decenni si sono conclusi con assoluzioni piene, spesso con la formula “perché il fatto non sussiste”.
Questo fenomeno evidenzia un duplice rischio. Da un lato, la politica resta esposta a procedimenti penali che non reggono al vaglio processuale ma che intanto incidono sulla reputazione pubblica. Dall’altro, strumenti come il codice Antimafia finiscono per amplificare questa condanna preventiva, producendo un effetto devastante sul piano politico-mediatico.
In Calabria, dove la criminalità organizzata è una presenza reale, la differenza tra contrasto serio alla mafia e strumentalizzazione politica diventa decisiva. Se la maggior parte dei procedimenti contro i politici termina con assoluzioni, vuol dire che occorre rafforzare le garanzie, non indebolirle.
Il rischio, altrimenti, è che l’uso del codice e la spettacolarizzazione delle inchieste alimentino la logica del sospetto, erodendo la fiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche e nella stessa giustizia
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