"Io, psicoterapeuta nei penitenziari, tra volti e anime dilaniate...". Donatella Argirò racconta la sua esperienza iniziata negli anni 80

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images "Io, psicoterapeuta nei penitenziari, tra volti e anime dilaniate...". Donatella Argirò  racconta la sua esperienza iniziata negli anni 80
Donatella Argirò
  23 aprile 2020 16:22

di DONATELLA ARGIRO’

Si può immaginare molto, e talvolta con superficiale curiosità, sul carcere e sullo stato detentivo, ma le dinamiche che avvengono al suo interno e la sua materialità sono impensabili e cercare di capire come l’uomo, la persona dietro le sbarre possa sopravvivere alla quotidiana privazione della propria libertà e di gestire il proprio tempo e il proprio spazio è quasi impossibile.

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Il mio servizio istituzionale, in qualità di psicologa ed esperta in criminologia penitenziaria, ha avuto inizio nell’ultimo scorcio degli anni ‘80. Ed è ancora vivo il ricordo, come fosse oggi, del mio primo ingresso in uno degli Istituti Penitenziari della Regione Calabria.  

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Ricordo …. era una giornata molto fredda e nevosa. Indossavo un cappotto azzurro con il colletto bordato in velluto bleu, con i capelli raccolti in alto in una coda di cavallo e tra le mani una cartellina di pelle color bordeaux (uno dei regali ricevuti per la mia laurea) nella quale vi era la nomina da parte del Ministero di Giustizia del conferimento dell’incarico  ministeriale.

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Entrando fui ricevuta dal Direttore, il quale, prontamente, con l'accenno di un gesto d'invito a sedermi difronte la sua scrivania e con tono tra l’ironico e la sorpresa di trovarsi davanti una giovane cosi minuta e con aria un po’ sbarazzina , mi disse: “Dottoressa le ricordo che Lei qui è come se si trovasse in una campana di vetro” ... nel senso che tutto era sotto la sua visione, tutto sotto il suo controllo, tutto era “trasparente”.

E fu proprio in quel giorno del mese di febbraio che iniziai da subito a confrontarmi con un mondo   nuovo, sino ad allora a me estraneo….

Nella mia lunghissima esperienza professionale ho incontrato tante persone ristrette: donne, uomini, giovanissimi, anziani, padri, madri e  migranti, con ognuno addosso il fardello pesante del proprio vissuto e ogni qualvolta sono invitata a dare testimonianza della mia esperienza lavorativa in ambito penitenziario il mio pensiero corre veloce verso di loro e dei loro volti, delle loro storie personali e alle lacerazioni interiori a queste unite.

Il Carcere è un luogo tremendo, dove vai perché hai commesso reato o, ancor peggio, si presume tu abbia commesso reato e, comunque, resta un luogo terribile e un grande contenitore di povertà.

L’esperienza del carcere è come un tatuaggio - mi diceva un giovanissimo detenuto - rimane per sempre inciso nella tua vita, non riesci a cancellarlo più. Molte sono le storie che accompagnano Samuel, Francesca, Marin, Vittorio, Abdul, Giuseppe, Maria, Bruno, Giovanni e tanti altri e altri ancora.

Al primo impatto scorgi una materialità alla quale non si può più tornare indietro: alti muri di cinta, grosse sbarre e talvolta in parte arrugginite, chiavi d’ottone pesanti e spesse, lunghi e freddi corridoi, voci che rimbombano, radioline accese qua e là, alti finestroni che non permettono di guardare oltre e alle sbarre indumenti annodati che, nelle giornate estive di caldo afoso e torrido permettono quantomeno di creare una minima schermatura di fresco, file di celle e con i blindati socchiusi e per altre chiusi e con tante persone dentro’, cancelli chiusi, la conta ripetuta più volte, in alcuni casi anche di notte, le luci sempre accese, ‘la battitura dei ferri a sorpresa, sempre a sorpresa’ .

Un luogo indescrivibile che vede a stretto contatto imputati in attesa di giudizio e detenuti alla loro terza o più condanne.

Un uomo, una donna, un ragazzo, una persona varca quelle mura, attraversa quei cancelli che sembrano  una discesa nel luogo più buio e dove il tempo si allunga e si piega su se stesso, è tanto, tantissimo, ma è terribilmente scandito, programmato, al punto di annullarsi totalmente.

Dall’ingresso in carcere, al momento in cui viene rinchiuso nella cella e dalla quale uscirà - percorrendo a ritroso lo stesso itinerario, se uscirà -, e nel giorno indicato sull’ordine di esecuzione, il detenuto vive uno stato interiore indicibile.

All’ingresso egli viene fatto sostare in piedi o seduto su uno sgabello in una stanza senza suppellettili e dietro un’inferriata; dopo e per un tempo che sembra eterno viene portato davanti all’Ispettore di Sorveglianza, dinanzi al quale vi è un registro dove viene scritto il suo nome che resterà per sempre. Dopo ancora qualche ora viene condotto nell’area matricola dove su un altro registro vengono annotate le sue generalità, impresso il suo nome assieme alla sua foto che viene scattata con una polaroid, vengono prese le sue impronte digitali (i polpastrelli vengono intinti nell’inchiostro blu). L’operazione prosegue con la perquisizione personale………..

Il detenuto, spogliato e seduto su uno sgabello di legno talvolta malridotto dall’usura del tempo, aspetterà che l’agente di Polizia Penitenziaria decida cosa potrà portare con sé oltre i cancelli, che ad intervalli regolari chiudono i corridoi, e togliere ogni cosa non permessa: lacci, cinturini, catenina e anelli, quant’altro viene ritenuto pericoloso per la propria e l’altrui incolumità, deve rinunciare a tutto quanto gli appartiene, iniziando così a perdere la sua identità, i suoi valori.

Le cose, che fino a quel momento aveva addosso e che facevano parte della sua vita personale e della sua identità, vengono catalogate e schedate. Diventano anch’esse un numero scritto su un pacco per rimanere in un magazzino fino al giorno, se mai ci sarà,  in cui egli sarà autorizzato a riprendere possesso di sé stesso, della vita, della volontà e delle sue cose che lo fanno riconoscere come persona.

Corridoi freddi e grigi con scarsa luce lo portano in un luogo nella maggior parte dei casi un magazzino dove gli sarà consegnato l’indispensabile per far fronte alle minime esigenze quotidiane: scodella, bicchiere e posate, un pezzo di sapone e un rotolo di carta. Una coperta e un lenzuolo logorati e intristiti dal continuo uso anch’essi smorti e grigi, una catino, uno sgabello saranno i compagni del suo corredo.

Grosse chiavi di ottone usurato dalle serrature aprono e chiudono cancelli, il rumore del metallo contro il metallo segna la strada che conduce verso la cella, luogo ridottissimo dove quattro, sei, otto persone dividono tutto e quel tintinnio di metallo che esclude alla libertà e la mandata a sfondare il silenzio, lo senti scalfire nell’anima. Molti sono in attesa di un giudizio, e non si sa se colpevoli o innocenti, quello che è certo è che sono lì dentro in questo spazio indicibile tanto è l’umana povertà interiore che viene vissuta.

*Psicoterapeuta-Comunicatore Pubblico-Giornalista

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