L'avv Conidi Ridola: "Difendere lo Stato pagando di tasca propria, il paradosso dei collaboratori e dei testimoni di giustizia"

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  23 dicembre 2025 10:30

di M.CLAUDIA CONIDI RIDOLA* 

Nel dibattito sui costi della giustizia e sull’efficacia del sistema di contrasto alla criminalità organizzata, il tema dei collaboratori e dei testimoni di giustizia continua a essere affrontato in modo marginale e spesso strumentale, come se si trattasse di una voce di spesa da comprimere piuttosto che di un presidio essenziale dello Stato di diritto. È innegabile che il sistema di protezione comporti costi rilevanti per l’erario, ma è altrettanto evidente che oggi esso soffre di criticità profonde che non dipendono dall’esistenza dell’istituto in sé, bensì da una gestione che appare sempre meno razionale, scarsamente trasparente e, soprattutto, incapace di garantire condizioni di vita dignitose a chi sceglie di collaborare con la giustizia. I numeri dei collaboratori e dei testimoni sono in costante diminuzione e ciò non può essere spiegato soltanto con la tradizionale omertà o con la forza intimidatrice delle organizzazioni mafiose, ma va letto anche alla luce di un sistema che, a fronte di sacrifici estremi, offre spesso contributi economici che possono ridursi a poche centinaia di euro al mese, arrivando in alcuni casi a circa 230 euro, una somma che rende impossibile qualsiasi prospettiva di stabilità personale e familiare.

A questo si aggiunge una precarietà esistenziale protratta nel tempo, fatta di trasferimenti continui, isolamento sociale, perdita definitiva di identità e di ogni possibilità di continuità lavorativa. Sul piano organizzativo, poi, non mancano scelte che appaiono difficilmente giustificabili sotto il profilo dell’efficienza e del contenimento della spesa, come l’utilizzo della videoconferenza per i collaboratori liberi, i quali, invece di collegarsi dalle località protette, vengono trasferiti in terze località ritenute sicure, con costi inevitabili di scorta, accompagnamento, pernottamento e impiego di personale, finendo per vanificare del tutto la finalità originaria dello strumento, che era quella di ridurre le spese connesse alle traduzioni e alle scorte e che trova una sua logica solo quando applicato ai detenuti collegati direttamente dai luoghi di carcerazione. In questo quadro già problematico si inserisce anche una storica opacità nella gestione delle risorse destinate alla protezione, opacità che non può essere ignorata alla luce di vicende passate caratterizzate da ammanchi rilevanti e da responsabilità di funzionari pubblici, senza che vi sia mai stata una rendicontazione pienamente rassicurante sull’effettivo superamento di tali criticità. Eppure, nonostante tutto, la protezione dei collaboratori e dei testimoni di giustizia resta un “lusso” che lo Stato non può permettersi di non garantire, perché i processi di mafia, ancora oggi, si fondano in larga misura sulle loro dichiarazioni e sulla loro disponibilità a rompere il vincolo criminale, senza le quali interi impianti accusatori sarebbero destinati a sgretolarsi. 

Proprio per questo, però, il sistema dovrebbe essere ripensato in modo serio e responsabile, intervenendo non solo sui costi, ma anche sulla qualità della tutela offerta. Un ulteriore elemento di forte criticità, spesso taciuto, riguarda infatti gli oneri economici che gravano direttamente sui collaboratori stessi e che dovrebbero essere chiariti sin dall’inizio del percorso collaborativo: la previsione che essi debbano versare il proprio trattamento di fine rapporto, la cosiddetta capitalizzazione, a saldo dei debiti erariali pregressi, con un impatto diretto e talvolta devastante su quelle risorse che potrebbero costituire l’unica base per un futuro reinserimento sociale e per una minima autonomia economica una volta concluso il programma di protezione. Questo meccanismo, sommato alla modestia dei contributi mensili e alla totale incertezza sul futuro, produce un effetto fortemente demotivante e alimenta la percezione di una collaborazione che non solo espone a rischi gravissimi, ma che impone anche di “pagare di tasca propria” la scelta di stare dalla parte dello Stato. In tali condizioni, la previsione che il numero dei collaboratori e dei testimoni sia destinato a ridursi ulteriormente appare tutt’altro che irragionevole, fino al punto da determinare una progressiva auto-eliminazione dell’istituto, non attraverso una formale abrogazione legislativa o un referendum, ma per effetto di una lenta e silenziosa disaffezione. Sarebbe questa la forma più insidiosa di smantellamento di uno degli strumenti più efficaci nella lotta alle mafie, e forse anche la più grave sconfitta per uno Stato che pretende di fondarsi sulla legalità e sulla fiducia dei cittadini.

*Avvocato


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