L'avv Conidi Ridola: "La violenza che cresce nell’ombra: capire il conflitto relazionale prima che esploda"

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  20 novembre 2025 08:36

 

di MARIA CLAUDIA CONIDI RIDOLA*

Nel nostro ordinamento lo scenario delle condotte persecutorie, disciplinate dall’art. 612-bis c.p., ha visto negli ultimi anni un’evoluzione significativa anche con riguardo alle dinamiche di reciprocità: vale a dire quei rapporti in cui non c’è un chiaro persecutore e una vittima passiva, ma due soggetti che si molestano a vicenda o vivono una conflittualità costante. In questi casi occorre prestare attenzione non soltanto alle condotte, ma anche alla qualità del rapporto, all’asimmetria relazionale e alla potenzialità evolutiva del conflitto. La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha ribadito in modo chiaro che la “reciprocità” non esclude automaticamente la configurabilità del reato: nella sentenza n. 36576/2025 la Quinta Sezione ha affermato che anche in presenza di condotte contrapposte “incombe sul Giudice un più accurato onere motivazionale in ordine alla sussistenza dell’evento di danno, ossia dello stato d’ansia o di paura o della necessità del mutamento delle abitudini di vita della persona offesa”. E già nella sentenza n. 33871 del 5 giugno – 1° agosto 2023 era stato precisato che la reciprocità non è di per sé causa escludente. Questo orientamento ha corretto alcune distorsioni interpretative, ma al tempo stesso mette in evidenza un limite profondo: il sistema continua a fondarsi su un modello che riconosce la vittima solo quando manifesta ansia, paura o un cambiamento evidente delle proprie abitudini. Ma che cosa accade quando la persona che appare “meno vittima”, quella che non riferisce stati di ansia o turbamento, è in realtà quella che alimenta la dinamica persecutoria, esercita un controllo psicologico, mantiene la tensione relazionale e rappresenta la parte potenzialmente più pericolosa? È un aspetto che nella pratica professionale emerge spesso: la parte più fredda, meno emotiva, che non subisce apparentemente danno, può essere quella che struttura una condotta persecutoria più sottile, che non si esprime attraverso paura o fragilità, ma attraverso una gestione calcolata della relazione e dell’offesa. E negli scenari più gravi questa freddezza può essere la premessa di condotte abnormi, anche letali: femminicidi, aggressioni improvvise, vendette simboliche come l’uccisione di un animale domestico legato affettivamente alla persona perseguitata. Il fatto che non provi ansia non la rende meno pericolosa; anzi, talvolta è proprio questo a generare il rischio maggiore. Il sistema penale, invece, interviene quando lo stato d’ansia è già manifesto, quando il danno è evidente. Ma in questi casi la parte “silente”, quella che non appare come vittima, potrebbe avere già costruito le premesse della tragedia, avendo agito per tempo, in modo sotterraneo, senza che il diritto potesse intercettare il crescendo persecutorio.

Questo porta a una riflessione più ampia sulla possibilità di immaginare una diversa qualificazione giuridica di queste dinamiche, non più come un semplice caso di stalking reciproco da scomporre in “chi soffre di più” e “chi soffre di meno”, ma come un vero e proprio reato relazionale, fondato sull’analisi dell’interazione, della conflittualità tossica, dello sbilanciamento di potere, del controllo e della reiterazione comportamentale. Un reato che non punisca solo l’autore che manifesta per primo un comportamento evidentemente persecutorio, ma che riconosca la responsabilità di entrambi quando entrambi alimentano un contesto patologico, lesivo e potenzialmente evolutivo verso forme di offesa più gravi. Reato che potrebbe essere ricostruito anche tramite testimonianze, prove documentali, analisi delle dinamiche comunicative, valutazione delle abitudini e dei comportamenti di entrambi i soggetti coinvolti. In quest’ottica personalmente auspico non solo una maggiore attenzione cautelare, ma anche la possibilità di punire entrambi i soggetti quando la persecuzione è reciproca e non consiste in un semplice litigio, bensì in una spirale persecutoria sistematica e tossica. Non si tratterebbe di criminalizzare la conflittualità, ma di riconoscere giuridicamente quelle situazioni in cui la reciprocità non corrisponde a parità e in cui entrambi concorrono a produrre un ambiente relazionale che contiene già in sé le premesse del danno grave, della violenza improvvisa o addirittura dell’omicidio. Il diritto penale, se vuole realmente prevenire e non solo reprimere, deve imparare a cogliere il rischio prima del danno, la tensione prima dell’esplosione, la minaccia prima dell’evento. E l’evoluzione tragica dei casi di femminicidio dimostra che attendere l’evento di danno per riconoscere la pericolosità di una relazione è un errore sistemico. In conclusione, il nostro ordinamento sembra ormai vicino a un cambio di paradigma: non più solo “chi ha paura”, ma “chi genera la paura anche quando non la manifesta”; non più solo la vittima che già soffre, ma la relazione che mostra segni di escalation; non più una gara a chi è più persecutorio, ma il riconoscimento che la violenza può crescere nell’ombra, in modo reciproco e asimmetrico, fino a diventare irreparabile. Solo un diritto capace di cogliere questa complessità potrà davvero intervenire prima che il conflitto diventi tragedia.

*Avvocato


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