
di M.Claudia Conidi Ridola *
Nei giorni scorsi ha fatto discutere la proposta, riportata dal Corriere, del presidente del Tribunale civile di Verona di impiegare alcuni detenuti negli archivi giudiziari, partendo dall’assunto – supportato da dati statistici – che il lavoro riduca drasticamente il rischio di recidiva, fino a scendere al 2%. È un principio condivisibile e difficilmente contestabile: il lavoro è uno degli strumenti più efficaci di reinserimento sociale.
Tuttavia, proprio perché la finalità è nobile e l’iniziativa ambiziosa, è necessario porsi una domanda preliminare: qualsiasi lavoro va bene, in qualsiasi contesto?
Il caso specifico degli archivi cartacei dei tribunali civili merita una riflessione più approfondita. Quegli archivi custodiscono documentazione sensibile: atti processuali, fascicoli personali, dati patrimoniali, decisioni che incidono in modo diretto sulla vita dei cittadini. In un sistema ancora largamente fondato sulla carta, la vulnerabilità è evidente.
La documentazione cartacea può essere alterata, sottratta, duplicata o fatta sparire senza lasciare tracce informatiche immediate. Anche una singola manomissione può produrre danni gravi, difficilmente reversibili, minando la certezza del diritto e la fiducia nelle istituzioni.
Qui non è in gioco il pregiudizio verso chi sta scontando una pena, ma un principio ben noto anche alla criminologia: il reato nasce spesso dall’incontro tra occasione e possibilità. Offrire accesso diretto a materiale delicato significa creare un contesto che può diventare un’opportunità concreta di illecito, soprattutto per chi, nella propria storia personale, ha già commesso reati – talvolta anche di falso, truffa o abuso di fiducia.
Paradossalmente, un simile impiego rischia di essere persino controproducente sul piano rieducativo. Invece di favorire una netta discontinuità con il passato, potrebbe diventare l’occasione per sublimare competenze maturate in contesti illegali, mettendo alla prova anche i percorsi di recupero più sinceri.
Nessuno mette in discussione l’importanza di offrire lavoro ai detenuti. Al contrario: le alternative non mancano. Ci sono molti settori che possono accogliere percorsi di reinserimento senza esporre lo Stato e i cittadini a rischi così elevati: manutenzione del verde, lavori ambientali, attività logistiche, servizi ausiliari, cooperative sociali, formazione professionale, lavori manuali o tecnici non sensibili.
La vera sfida, dunque, non è dimostrare che il lavoro riduce la recidiva – su questo il dibattito è chiuso – ma scegliere con attenzione i contesti, bilanciando reinserimento e tutela dell’interesse pubblico. La giustizia non può permettersi leggerezze proprio nei luoghi in cui si custodiscono atti, prove e diritti.
Trasformare i tribunali in palcoscenici di buonismo a buon mercato significa snaturarne la funzione, così come erigere altari a divinità estranee all’interno di una chiesa cristiana: un gesto che confonde i ruoli e svuota il senso del luogo.
*Avvocato
Segui La Nuova Calabria sui social

Testata giornalistica registrata presso il tribunale di Catanzaro n. 4 del Registro Stampa del 05/07/2019
Direttore responsabile: Enzo Cosentino
Direttore editoriale: Stefania Papaleo
Redazione centrale: Vico dell'Onda 5
88100 Catanzaro (CZ)
LaNuovaCalabria | P.Iva 03698240797
Service Provider Sirinfo Srl
Contattaci: redazione@lanuovacalabria.it
Tel. 3508267797