di FRANCO CIMINO
Ventiduemila persone quante sono? Sono quanto il pieno dello stadio di Bergamo o di Udine o di Bologna, nelle partite importanti. Sono quanto piazza della Loggia a Brescia, Piazza della Repubblica di Napoli o di Roma, piazza del Popolo ancora a Roma, piazza Duomo a Milano, strapiene nelle grandi manifestazioni politiche e sindacali. Sono quanto l’intera popolazione di Merano o di Aosta o della nostra Soverato in piena estate. Ventiduemila è oggi il numero degli italiani morti a causa del coronavirus. Quando ci lamentiamo delle ordinanze che non ci hanno consentito neppure di festeggiare la Pasqua e la Pasquetta con le grigliate a vino fuori porte o al mare, dovremmo porci la domanda se davvero saremmo stati capace di mangiare, bere ed ubriacarci, ballare e cantare fino a stancarci, mentre nelle stesse ore migliaia di esseri umani stavano lottando soltanto per vivere, inconsapevoli che, sistematicamente, mediamente seicento di loro non ce l’avrebbero fatta. No, non avremmo cantato e brindato, ne sono certo. Questa volta lo spirito goliardico e il carattere allegretto specificamente italico, non si sarebbero imposti sulla tristezza e il dolore. Completamente digiuni di aritmetica e sterili di senso umano, sono stati, però, i più importanti politici italiani. Altrimenti, non si comprenderebbe la violenta polemica che, nata alla viglia di Pasqua, ancora insiste sulle quattro tavole cadenti del teatrino della politica. Ancor più non si comprende la querelle sollevata dagli operatori dell’informazioni, dagli osservatori ed esperti della comunicazione, su cosa sia consentito dallo scontro politico e cosa dalla dialettica politica, quale sia il galateo da adottare da parte dell’uno o dell’altro schieramento in campo. Intellettuali di dichiarata fama, i soliti che occupano i salotti televisivi, con la riconosciuta ormai superficialità, addirittura, disquisiscono non sui compiti e le responsabilità del governo e dell’opposizione, ma solo su chi dei due soggetti abbia più diritti nel contrastare con la polemica più verbosa l’altro. Insomma, chi possa offendere l’avversario senza incorrere nella sanzione dell’opinione pubblica, sempre ben sollecitata a dividersi su queste cose, a mo di bar dello sport per le partite di pallone.
Questa tifoseria elevata fino ad occupare spazi nei telegiornali più importanti si divide, a seconda anche della ispirazione politica che soffia alle spalle di quelle redazioni, su chi sostiene le ragioni del Presidente del Consiglio nell’attaccare, in piena “conferenza stampa a reti unificate”, i due leader della sua opposizione che la notte precedente lo avevano apertamente accusato di lavorare in Europa contro gli interessi degli italiani. E su quanti, quasi di pari numero, sostengono le ragioni di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, che non solo quella notte, ma in tutti i giorni precedenti, anche loro su tutte le reti e giornali, hanno attaccato con estrema durezza il loro “ nemico” giurato, Giuseppe Conte, avvocato di Foggia, l’uomo che siede( sono argomenti loro) a palazzo Chigi senza “ essere stato” eletto dagli italiani( sic!!). Io penso che questa polemica e la relativa “ querelle costituzionale”, sia da una parte ridicola, dall’altra drammatica. Ridicola, perché non è nella polemica, la più feroce, e negli insulti, i più infamanti, che si misura la qualità di un governo o della sua opposizione; non è nel prevalere dentro quelle scatole illuminate, che sono i televisori e i nuovi strumenti del web, che si afferma la capacità politica, ovvero la giustezza di una posizione rispetto all’altra. La qualità dei due soggetti politici si misura dalla capacità del Governo di fare un buon governo, e dell’opposizione di saperne controllare l’attività e di elaborare proposte che non solo siano in grado di modificare e migliore l’azione dell’Esecutivo, ma di essere parte del programma di un nuovo democratico assetto amministrativo. Quali siano le responsabilità delle due parti antagoniste in relazione agli interesse del Paese e quali ruoli ad essi ne discendano direttamente dalla Carta Costituzionale, sono questi i temi che devono essere portati all’interno di un dibattito culturale prima che politico, che voglia ripristinare il prestigio delle istituzioni e l’autorevolezza dello Stato democratico. Nello spirito della Costituzione, che mette pure in rilievo la libertà, se correttamente utilizzata, del confronto fra le diverse parti politiche, c’è un implicito richiamo all’unità dei fini da parte dei protagonisti. Maggioranza e opposizione, pur se divisi e dialetticamente contrapposti, distinti ma non distanti, concorrono insieme a formare la decisione politica. Specialmente, quando l’interesse del popolo si gioca su un duplice scacchiere, quello internazionale e quello di una grave emergenza che metta a rischio risorse umane ed economiche del Paese. L’unità dell’Italia, la sua vita materiale e democratica, la sua enorme ricchezza, economica e spirituale, umana e culturale, ambientale e artistica, sono la bussola di orientamento per chiunque faccia politica anche disconoscendo i principi e i valori della nostra Carta fondamentale. Per questi motivi, dinanzi a un’Europa che continuamente ci guarda anche per misurare la consistenza della nostra forza, questa sì, oggi oppositrice, e a ragione, nei confronti della prepotenza degli stati più forti, cinici fino alla ribellione di ogni coscienza, Conte, Salvini e Meloni, hanno sbagliato. In modi e proporzioni parecchio diverse tra loro, ma hanno sbagliato insieme. Ha sbagliato il presidente del Consiglio, che avrebbe potuto dire le stesse cose in Parlamento. Hanno sbagliato i leader dei due partiti più forti della minoranza, perché quelle durezze “oppositive” avrebbero potuto portarle in Parlamento. Ancora meglio se questa dura contesa si fosse potuta tenere quando la grave emergenza si fosse attenuata. Farla e ripeterla in queste ultime ore, con seicento morti al giorno e migliaia che lottano disperatamente per non morire, mi sembra una cosa assai brutta. E una cosa assai brutta non rientra mai nella dialettica politica di un sistema democratico e nel tanto reclamato spirito della Nazione. Solo per sottolineare la cultura unitaria di un vera grande Nazione, quella americana, e giammai per condividerne l’iniziativa, ricordo un particolare scarsamente noto agli italiani, anzi due. Sono gli anni 1993 e 2001.
Nei primi era inizio di luglio. Da poco il giovane Bill Clinton è presidente degli Stati Uniti. Dai servizi segreti apprende che George Bush, l’uomo che in una durissima campagna elettorale aveva battuto da presidente uscente, era nel mirino di un attentato terroristico che stava per essere compiuto durante la sua vacanza in Egitto con la moglie. Senza esitare un attimo, né consultare alcuno, invia una una batteria aerea per bombardare il luogo dove si trovavano i terroristi. L’operazione riesce con successo, mentre il suo Air On, riporta immediatamente in patria gli ex presidente e first lady. Nel 2001, era l’undici settembre dell’abbattimento delle torri gemelle. Presidente degli Stati Uniti era l’altro Bush, George junior, figlio. Questa volta era Bill Clinton a trovarsi all’estero, in Australia per una serie di conferenze. Con atteggiamento analogo a quello del ‘93, Bush invia subito il secondo aereo presidenziale in quel lontano paese, fa prelevare l’ex presidente e lo fa portare, super scortato da jet armati, in un luogo sicuro. First America, non è solo un motto di una propaganda elettorale. È lo spirito della Nazione americana che si impone come forza unitaria su tutto. Anche sugli interessi particolari. Da quelle parti, prima vince il Paese, poi la persona.
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