di FRANCO CIMINO
La Chiesa, quasi vuota d’anime e di persone,
si riempì del tuo silenzio.
Il Crocifisso, sospeso in alto sopra l’altare,
volse lo sguardo alla Città.
Che stava fuori.
Lontano.
E non domandò dove fossero andati tutti i tuoi conoscenti e i tanti di più che si dichiaravano
tuoi amici.
Ti sentì soffrire e noi lo vedemmo scendere per portarti via.
Tra le sue braccia.
Lo fa sempre verso i fratelli nella sofferenza. Quella, in particolare, della solitudine e dell’abbandono.
Della dimenticanza del mondo su di loro.
Quel tuo silenzio abbatté il dolore e comando di spegnere le parole.
Così feci sulle mie.
E non dissi più nulla.
Neppure a te.
E di te.
Vorrei oggi parlare ai tuoi amici, alla tua Città. Vorrei farlo dal balcone più alto della tua Pontegrande.
Ma non mi vengono le parole.
Se non le tue, che mentre già libero sali, mi dici:” Fra’ lassa stara.
U sai com’è Catanzaro!
È bella, ma si scorda prestu.
Non e mia o e tia.
Si scorda e idra stessa, ca si fa sturdira e vinu
e de Morzeddru, e bumbardara e musica d’o sballo e de’ paroli sciunduti.
Fra”, penza a tia!
Ma chi tu dicu a fara, tantu u sacciu ca non t’arrendi, comu on m’arrendivi eu.”
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