di DANIELE CORASANITI
Scandagliare il nuovo libro del Prof. Domenico Bilotti (“Disobbedire alla pena. Studio su resistenza e ingiustizia in riferimento a Francisco Suàrez 1548-1617”, Castelvecchi, Roma, 2021) richiede un’osservazione preliminare: non è più rinviabile una discussione culturale, collettiva, complessa sul tema della funzione del diritto e della pena.
Da questo accento, infatti, è individuabile il punto dal quale l’autore sembra partire nel suo viaggio a ritroso circa il diritto di resistere, che altro non è se non un’indagine puntuale e precisa, coinvolgente e appassionata, sul diritto di disobbedire ai precetti normativi e alle conseguenze della loro violazione. Il tutto in una cornice che, fa ben intendere l’autore, non vuole degradare le fondamenta delle istituzioni, bensì è destinata a capovolgere la concezione dei rapporti fra lo Stato, le leggi e gli individui: disobbedire non equivale a non rispettare la legge o le conseguenze da esse scaturenti, ma attuare precetti desumibili da principi superiori. In primo luogo, partendo dallo sviluppo dell epoca basso-medievale, il Prof. Bilotti trasversalmente individua alcuni dei più importanti nodi genetici del diritto di resistenza e della disobbedienza.
La questione luterana, paradigmatico terreno fertile di una prima (e necessariamente sfumata) nozione di diritto di disobbedienza, non prescinde dalla contestualizzazione propria dei vari contesti storici di riferimento. Anche qui la disobbedienza non è vista contro il diritto, ma nel diritto stesso, seppur ancora limitata nella sua esplicitazione.
In Francisco Suarez si incanala la figura in grado di squarciare il velo di Maya che si annidava attorno al contesto teologico spagnolo, teso a rileggere e reinterpretare il pensiero tomico sulla base degli sviluppi e delle contraddizioni del tempo.
Il diritto viene intelligentemente eretto a scienza delle libertà rispetto agli individui e all’ente comunità, prescindendo dalla morale e dal costume degli uomini. Così viene ripercorsa e analizzata la teoretica del Suarez rispetto ai limiti necessari del diritto di disobbedire rispetto alle leggi del monarca. Il giurista iberico, in definitiva, costruisce la nozione moderna della disobbedienza quale necessità che trae il proprio humus e la più lucida soddisfazione nel diritto stesso.
Bilotti coscienziosamente ripercorre gli anzidetti passaggi di storia del pensiero non per un autocompiacimento speculativo-dottrinario, ma intento a fornire alcuni suggerimenti in grado di rinnovare la teoretica della resistenza, senza farsi turbare dai moti del semplicismo né dal fanatismo. Come spesso accade in dottrina, si pone il problema di individuare e rinnovare determinati interrogativi e soluzioni.
Tornando, quindi, al punto di partenza, circa la funziona del diritto e della pena, fra le righe dell’autore si poggiano i primi semi di una riproduzione del diritto quale scienza di libertà, anche alla luce (e in contrasto di) un orientamento, avallato dalla prassi, sempre più degradante dei precetti giuridici, tanto di tipo speciale quanto nelle sue fondamenta generali. Ancor di più, il Professore attrae il lettore nel dilemma proprio dello studioso del diritto e dei diritti, sul contrasto tra le leggi comuni (ovvero sia della comunità) e quelle scaturenti dall’intimità dei singoli individui, specie se filtrate dalle istanze religiose ed etiche.
Ne viene fuori, in definitiva, uno spaccato che profuma di principio di libertà, se non in ciò che viene fatto, quanto meno in ciò che viene detto.
Sì, la disobbedienza, così intesa, profuma di libertà.
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