La lunga, fredda notte della democrazia

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L’avvocato Nunzio Raimondi
  11 gennaio 2020 10:05

Non sono su facebook e quindi ignoro la più parte dei commenti, pubblici o riservati “agli amici”, che vengono pubblicati colà.

Ma in molti m’informano di questo mondo che Umberto Eco definì in maniera sarcastica e di performances di taluni (per verità perfino insospettabili) che si dilettano nella pura denigrazione e dei molti, invece, che, ad esempio, hanno applaudito al mio recente articolo, pubblicato su questa Testata,contenente alcune valutazioni tecniche sul processo penale ed alcune perplessità sul comitato pro Gratteri.

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Al netto delle contumelie che appena ieri il dr.Travaglio ha riservato indistintamente sul Fatto Quotidiano a “politici, opinionisti, garantisti all’italiana e molti esponenti dell’Avvocatura”, giudicati tutti dal noto cattedratico degli “ignoranti patentati” (sul tema della prescrizione, di cui conviene occuparsi con separata ed appropriata riflessione), conviene forse completare l’argomentazione già avviata con l’articolo sul “risveglio delle coscienze e l’inutilità degli applausi”, attraverso il richiamo ad alcuni concetti di fondo che,in quel “pezzo”, si è volutamente omesso di approfondire per non dare un taglio eccessivamente tecnico alla riflessione.

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Ma,poiché da alcuni sembra non esser stato compreso il sintetico richiamo all’innaturale accostamento del consenso popolare all’attività giudiziaria,è bene indicare alcuni punti sui quali spero vi sia generale condivisione e che costituiscono il presupposto di un dibattito non incolto sul tema.

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Mi riferisco al principio della separazione dei poteri (e mi scuso sin d’ora se potrò apparire,specialmente agli addetti ai lavori,eccessivamente didascalico).

Ma, di fronte alla diffusione di alcune - a mio avviso imprudenti - affermazioni, non si può far a meno di precisare ciò che, in effetti, dovrebbe essere noto a tutti, ossia che in Italia non spetta alla magistratura di “scomporre e ricomporre la società come un lego” e che,seppure da un lato è vero che l’omertà si vince anche (ma non solo) con un’efficace azione giudiziaria che confermi la fiducia dei cittadini nella giustizia, d’altro lato questa attività non è demanio del pubblico ministero ma della giurisdizione, quindi dell’intero sistema cui si deve sottoporre ubbidiente alle leggi ogni cittadino italiano,magistrati compresi.

In questo sistema, è vero, l’iniziativa per l’esercizio dell’azione penale spetta al pubblico ministero ma è il giudice a stabilire se questa azione è fondata od azzardata,in un ordinamento che si articola in due gradi di giudizio di merito ed uno di legittimità.

Anche per l’applicazione di misure cautelari il pubblico ministero chiede l’applicazione della misura ma un giudice la applica, osservando determinati parametri legali; dei giudici poi possono controllare tale decisione in sede di riesame e di legittimità.

Quindi, la magistratura tutta,requirente e giudicante, e l’avvocatura, sono impegnate, insieme a tutti gli indispensabili operatori della giustizia, a far funzionare questo complesso sistema.

Ora,però,è bene precisare che l’attività della magistratura, che, per precetto costituzionale, è affidata ad un Ordine, quello giudiziario, è presidiata da guarentigie che ne assicurano l’indipendenza da altri poteri dello Stato.

Infatti, non soltanto essa è governata autonomamente da un organo di rilevanza costituzionale, il Consiglio Superiore della Magistratura, ma l’attività dei magistrati è presidiata da una totale indipendenza che, si badi, non tollera alcuna interferenza perché possa spiegare utilmente la propria funzione.

Pertanto,il sistema è strutturato in modo che eventuali “attacchi a magistrati” nell’esercizio delle loro funzioni, ad intra o ad extra,siano gestiti proprio dall’organo di autogoverno della Magistratura, presieduto dall’organo costituzionale Presidente della Repubblica, senza che sia necessario (inutilità degli applausi) che il popolo sovrano si unisca ad essi a sostegno di un’opera in sè politica di trasformazione e cambiamento sociale che della magistratura non è propria.

Ora,se ciò avviene (magari in forza dei ripetuti richiami di magistrati alla società a collaborare con la giustizia per rendere più efficace il contrasto al crimine che presenti un ufficio giudiziario nel quale si fa soltanto il proprio dovere in una specie di fortino impegnato in una lotta), non può tacersi che si finisce per instaurare una sorta di deviazione dall’indipendenza della magistratura,trasferendo al popolo funzioni di supporto (attraverso l’esplicitazione del consenso) a questa che non soltanto sono improprie ma sono anche potenzialmente lesive della sua stessa indipendenza.

Senza contare che un tale messaggio sovraespone il carattere di equilibrio che è nella legge, la bilancia e la spada, presentando un’idea di fare giustizia che pende da una parte sola.

Non a caso la Carta afferma che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” proprio per garantire che nessuno ne possa influenzare l’azione.

Come avevo preconizzato nella mia precedente pubblica riflessione,una gran quantità di soggetti politici -e da ultimo perfino alcuni partiti - si sono “buttati a pesce” nella ghiotta occasione di dare pubblicamente sostegno “politico” all’azione del dottor Gratteri (ricordo a me stesso che la Procura della Repubblica è però un ufficio impersonale...), in tal modo, secondo la mia opinione,recando grande disdoro all’indipendenza dell’intera Magistratura.

Ed a tal proposito -ed a dimostrazione di quanto sia immemore della storia questa deriva populista- permettete che richiami un episodio al quale si rifece Salvatore Satta, in apertura della sua monumentate conferenza all’Universita’ di Catania del 4 aprile 1949 (che poi divenne uno di quei libri che aprono la mente e che consiglio sempre di leggere ai miei studenti):

Siamo nel 1792 sulle rive della Senna, un’orda di sanculotti inferociti,armati fino ai denti,preme alle porte del palazzo di giustizia dove il Tribunale rivoluzionario sta giudicando il maggiore Bachmann, della guardia svizzera del re.

Questa folla inferocita forza i cancelli e fa ingresso nell’aula d’udienza intitolata a San Luigi.

Il presidente del Tribunale ,Lavau, ferma d’un gesto gli invasori: con poche energiche parole intima “di rispettare la legge e l’accusato che è sotto la sua spada”.

Si vedono allora i massacratori, in silenzio, ripiegare docilmente verso la porta.

Ecco,anche se la folla che si radunerà a Catanzaro,non somiglia lontanamente alla folla mentovata da Salvatore Satta,essa sembra essere comunque immemore dell’intimazione di Lavau: la magistratura non ha bisogno del popolo per fare giustizia ed anzi reclama la sua indipendenza,a tutela della legge e dell’accusato.

E,per quanto nobile sia l’iniziativa di dare sostegno ad un valente magistrato nell’azione che egli compie nell’interesse della Repubblica e dunque dello Stato (esattamente al pari di ogni altro servitore dello Stato),questo sostegno non può confondersi (specialmente quando il

messaggio stesso è idoneo a confondere) con l’adesione ad un’azione di cambiamento della società che non appartiene affatto alla magistratura.

Il giudice -non soltanto il dottor Gratteri - è sempre solo, perché è la sua indipendenza ad esigerlo ed il consenso popolare non può cambiare questa sua condizione.

Altra cosa è “l’attacco al magistrato” da trattare con l’equilibrio ed il discernimento di chi sa e può disporre di una visione completa dei fatti, non da parte di una folla che sembrerebbe, a prima vista,non avere le idee chiare e che al primo segno di dissenso (che è poi il sale della democrazia) si precipita a cavalcare le speculazioni latu sensu “politiche” della delegittimazione.

Ma, a dispetto delle tesi sostenute da questi “puri e duri” (molti schierati politicamente,pochi davvero idealisti e molti davvero opportunisti...), dirò che in Italia esiste ancora la libertà civile di manifestazione del pensiero e che i provvedimenti giudiziari vengono confermati o meno nei processi, non nelle piazze.

Sicché, una pubblica critica ad un magistrato, anche se essa riguardi i provvedimenti a sua firma (purché s’intende portata con rispetto), non costituisce di per se’ delegittimazione, poiché l’azione dello Stato si legittima con l’azione complessiva dello Stato non con l’azione di una persona.

Se così fosse ogni volta che lo Stato trova in se’ una condotta infedele (cosa del resto possibile e purtroppo frequente), dovrebbe trovarsi delegittimato ed,ogni volta che un servitore dello Stato faccia il proprio dovere, essere, invece, legittimato.

Chiunque vede che questa tesi è fallace.

Lo Stato si legittima da se’, con le proprie leggi e con l’attuazione delle stesse: dobbiamo essere grati a tutti coloro che, ad ogni livello, applicano le leggi e le fanno rispettare,senza figli e figliastri, perché lo Stato siamo tutti noi.

Anche questa tendenza a santificare alcuni e disprezzare altri,lasciando da parte tutti,ossia la stragrande maggioranza degli uomini e delle donne italiane che, con sacrificio ed abnegazione, fanno in silenzio il proprio dovere,a me sembra un sintomo del manicheismo che affligge il nostro tempo,come se davvero la società fosse semplicisticamente da separarsi in buoni e cattivi.

Mentre abbiamo bisogno dell’esatto contrario: di consapevolezza della connessione dei problemi e della necessità di affrontarli con uno sforzo comune ma, al contempo, rispettoso delle regole e del patto sociale sul quale abbiamo costruito la nostra vita di comunità.

E non vorrei esser portato a dar ragione a

Marcel Proust,il quale affermava che”...ciascuno chiama idee chiare quelle che hanno lo stesso grado di confusione delle sue”, disconoscendo che la deriva giustizialista in essere non sia nient’altro che una lunga, fredda notte della democrazia e che ciascuno di noi è chiamato a cercare e difendere il giorno e, con esso, la luce della Costituzione.

Nunzio Raimondi
 

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