di FRANCO CIMINO
Eppure soffro. Sento un dolore forte. Un’altra volta lo sento. E non è per per la progressiva perdita di capelli bianchi e degli anni loro. Ma da sempre. Lo sento che ero bambino. Le molte prime volte me lo ricordo bene. L’ultima me la ricordo pure bene. È stata due mesi fa per la morte di Iole Santelli, la presidente che non ho votato e ho apertamente contestato. La sua morte mi ha colpito. Sola in casa, dopo la fatica di una giornata dura e rischiosa. E dopo quel duplice giorno della speranza e della gioia, che lei, di certo, aveva dipinto sugli occhi e trattenuto nel cuore. Quel giorno in cui le dissero che forse ce l’avrebbe fatta a vincere il cancro. Tanti ci sono riusciti e anche lei avrebbe potuto. La sua età l’avrebbe aiutata. La sua forza l’avrebbe voluto. La sua bellezza di donna, ancora molto femminile, lo avrebbe imposto. E l’altro più recente giorno. Quello in cui le urne le dissero che avrebbe guidato la sua terra dove lei avrebbe voluto. E potuto. Desiderio e possibilità, sogno e realtà, si erano dati la mano. Quella morte cosi come è venuta, la solitudine, più profonda ancora di quella che con la morte ci prende, in cui si trovava in quella tarda sera, mi hanno colpito. E chissà perché il mio pensiero vada sempre sulla domanda se avesse avvertito che stava andandosene e se avesse avuto il tempo di dirsi e dire.
Ieri mattina presto mi sono svegliato con un dolore altrettanto forte. Sempre in petto. Un dolore battente di inquietudine e tormento. Di rabbia e di potenza repressa e frustrata. Me l’ha recato la notizia dell’arresto di Mimmo Tallini. Io provo sempre un dolore grande quando un uomo, chiunque egli sia, subisce la sofferenza più grande nell’umiliazione senza limiti, la carcerazione. Non la limitazione o la sottrazione della libertà, cosa in sé neppure concepibile ché la mente vacilla, ma la presa in custodia da parte dei rappresentanti della legge per l’accusa, la peggiore, di aver offeso la Legge. Di più, per averlo fatto, secondo l’accusa, ingannando la fiducia del popolo che ti ha riempito di gloria ed onori, di forza e di potere.
Ho dolore perché dopo la disgrazia della perdita del presidente della Giunta, sulla Calabria cade, dopo questi ultimi dieci giorni di ignominia, umiliazione e messa in ridicolo davanti a tutta Italia, un macigno che rovina molto più del peso che gli è stato assegnato. Con Tallini viene arrestato il presidente del Consiglio regionale. È questo è già in dolore acuto. La sorte della persona lo è pure. L’accusa che gli viene notifica è tra le più brutte. La solita che, ormai ciclicamente, porta in galera non pochi politici calabresi, che hanno avuto a che fare con la giustizia, anche se molti se ne sono liberati durante il processo, lasciando sul campo la preoccupazione che qui da noi, nella giurisdizione calabrese, qualcosa non funzioni tra il momento dell’accusa e quello del giudizio. Davanti ai nostri occhi danzano ancora i fatti più recenti riguardanti il complesso e articolato mondo della Giustizia.
Sono addolorato per questa terra che non ha pace e vive nel tormento. Tormento che la terra quando frana, o trema, o dalle acque è violentemente invasa, sente. La terra fortemente sente, ma non i suoi abitanti che ne attribuiscono la responsabilità ai terremoti, alle alluvioni e alle mareggiate. E poi tristemente, rassegnatamente, attendono che la fiumare si abbassi, che il mare si calmi, il sommovimento tellurico si quieti. Oggi il mio dolore è più forte. Sento nuovamente - quelli di ieri erano più lontani questi sono molto vicini - squilli di trombe e rulli di tamburi e un gran vociare di persone. Sembrano musiche festanti e grida di giubilo. E passi rumorosi sento. Come un esercito in marcia. Un popolo che canta e grida come se si fosse liberato. Fosse stato liberato dopo lunghissima attesa. Urla un nome e sotto le sue finestre questa volta (un anno fa erano assai poche) sembra si stia recando. È quello del suo liberatore. Lo ringraziano. Lo pregano di continuare. Di completare l’opera della liberazione.
Ho un dolore forte. In petto. Proprio sul cuore. La Calabria da sempre immobile tra vittimismo e messianesimo, oggi esulta per il “tiranno” imprigionato. Nessuno più lo conosce, nessuno gli fu amico. Vergogna! A portarlo per cinquant’anni nelle assemblee elettive più prestigiose e sulla scranno più alto dell’ultima, è stata la mafia. Quella degli altri. Così coloro che avrebbero dovuto fare la rivoluzione e non l’hanno fatta, quelli che sono stati a guardare o sono stati “ imprigionati” nelle loro certezze e nelle fantomatiche pareti di libri, quelli che “siamo intellettuali e non ci sporchiamo” , quelli che un “potente è sempre intelligente ed è meglio non farselo nemico”, quelli che i vincenti hanno sempre ragione e i perdenti non solo hanno torto ma sono pure sfigati, quelli che si sarebbero potuti unire contro e invece si sono sempre divisi a favore, quelli che non ci sono mai nelle sofferenze della gente e quelli che parlano di rivoluzione la domenica mattina quando i negozi sono chiusi, oggi urlano di gioia. Perché non la Politica ma un uomo al di fuori di essa li avrebbe liberati.
Sento oggi un dolore. Fortissimo. Che quasi mi si rompe il petto. La Calabria che non si libera saluta il solitario eroico liberatore. Mentre le urne elettorali prossime attendono di essere riempite. E temono, esse, quei quattro legni, temono che nuovamente a riempirle sia il vuoto di idee e la solita vecchia politica che, ogni cinque anni, puntualmente cambia colore.
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