Hanno fatto il giro del web le immagini, catturate da un telefonino indiscreto, di una donna abbandonata a se stessa, in ostaggio del Covid, che chiedeva aiuto invano nel pronto soccorso di un ospedale calabrese, senza che, alla sua richiesta di soccorso, corrispondesse un repentino segno di risposta. Il reparto appariva una landa oscura, più abbandonato della stessa donna, senza che nessuno lo governasse, senza che nessuno apparisse sulla scena investito di un incarico teso alla soluzione del problema.
Questa immagine è l’icona di una sanità che in questo momento è molto più malata dei cittadini che dovrebbe curare. E’ il momento di guarirla. La poveretta era pressoché un addendo di una lunga somma di gente corsa in ospedale a seguito della pandemia, il cui lamento ha superato lo schermo del telefonino indiscreto per giungere, come un urlo, sugli schermi della tv, fino al tavolo della Presidenza del Consiglio dei ministri.
Si è scelta tale immagine per aprire e proseguire la nostra riflessione, augurandoci che arrivi, anche solo per sbaglio, nella mani giuste, perché ci è sembrata la più eloquente per fotografare la sanità calabrese, malata più dei calabresi in questo momento. La scegliamo e la eleggiamo come fermo-immagine costante nel percorso decisorio dei tanti soggetti che, in tema di sanità calabrese, dal livello locale fino a quello nazionale, dovranno esprimersi. Se questa si offusca, si imbavaglia, si cancella addirittura, se si comincia ad affrontare la vicenda solo in termini ragionieristici e imprenditoriali, si perde il polso della situazione attuale della popolazione calabrese, che ormai ruggisce per le strade, nelle piazze, stanca di essere stata abbandonata e presa in giro per ben undici anni da più schieramenti politici e da più governi centrali.
La domanda di salute che il fermo-immagine porta con sé contiene già una risposta: le centinaia di calabresi malati, bisognose di cure, sognano che quei tanti medici calabresi, che spiccano per bravura in tanti ospedali italiani ed esteri, possano tornare in Calabria a svolgere il loro lavoro. Questi sono, però, scappati, ed è molto difficile che tornino. Taluni sono figli di quelli che oggi chiedono cure e non possono spostarsi dalla Calabria per via dell’età che avanza. Forse sono stati anche spinti dai genitori a restarne fuori, a cercare contesti “normali” entro i quali operare. Proprio da quei genitori che, per via dell’età, divenuti improduttivi, rischierebbero grosso in qualche altra regione italiana.
Torniamo ai contesti e a quelli normali. Se ne parla come di un mantra ormai, perché divenuti centrali come una preghiera sussurrata per far fronte ad un bisogno che potrebbe restare senza risposta. Sono essenziali ma inesistenti: il grande problema calabrese è il contesto, che si è ammalato. È un problema trasversale, che attraversa tutte le sfere della convivenza e della cooperazione. Il dover operare in situazioni nelle quali mancano le medicine, mancano gli strumenti, mancano i posti-letto, mancano le risorse umane, mancano gli ospedali è un contesto pari a quello che si può vivere in un ospedale da campo, un ospedale a tempo determinato, non a tempo indeterminato, uno di quelli che adesso allestiranno in regione per rispondere all’emergenza Covid. Quei medici calabresi, bravi, intelligenti, perspicaci, sono fuggiti da un contesto malato per raggiungere contesti normali nei quali operare.
È il contesto, dunque, che va curato. Ciò significa ricondurre a condizioni di legittima operatività il funzionamento degli ospedali civili, affidati oggi a quei pochissimi medici che, lavorando sodo, garantiscono un minimo di sanità pubblica. Troppo poco per i bisogni di salute precedenti e successi vivi al Covid. Legittima operatività significa rafforzamento del rispetto della legge, che sta sopra gli interessi dei gruppi familiari, delle cordate di uomini di affari, delle ragioni di interesse di più e più realtà.
Questo si scrive perché su tutto restino superiori le ragioni del “nostro” fermo-immagine! Del contesto malato si deve occupare lo Stato, visto che la storia ci indica che le forze buone della nostra regione non sono riuscite da sole a risolvere il male, che invece, come la pandemia, ha superato i confini regionali e si espande altrove. Diciotto ospedali civili chiusi non sono pochi; sono stati concretamente una negazione crescente al diritto alla tutela della salute, sancito nella Costituzione. E non solo di negazione alla salute si è trattato ma anche di negazione al diritto di lavorare, e di conseguenza, di scegliere di restare in Calabria. Come è potuto accadere che tali negazioni si sono consumate in questi lunghi undici anni senza che nessuno schieramento politico abbia avuto la forza di invertire la rotta?
Non è forse maturo il tempo che si abbandoni la logica dell’appartenenza a questo o a quello schieramento politico per cominciare a ragionare solo in termini di appartenenza ad un territorio che ha, da un verso, ferite profonde da sanare e, dall’altro, potenzialità notevoli per rigenerarsi? Se le energie richieste per la difesa di questo o di quello schieramento politico prosciugano quelle necessarie a curare la donna del nostro “fermo-immagine”, è tempo di cambiare. E ancora, nell’azione di risanamento, ci corre l’obbligo di indicare l’urgenza di restituire al servizio pubblico lo standard dell’affidabilità, della capacità di tutelare tutta la persona, in uno a quello dell’efficienza perché si cancelli definitivamente la sensazione diffusa tra la gente che affidarsi al “pubblico” significhi tout court entrare in un dimenticatoio, in una serie infinita di carenze, di assenze, di silenzi, di mancate risposte.
Non sono sottigliezze su cui sorridere con ghigno sornione; si tratta di prevedere e gestire le paure, la sensazione di essere arrivati al capolinea in momenti di solitudine, momenti in cui tra i problemi del corpo e quelli della mente i confini non ci sono più.
La donna del fermo-immagine ne è un’icona. Non dimentichiamo.
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