La recensione di Vanni Clodomiro: "Amore, vita e donne in 'Lettere' di Teresa Catone"

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Teresa Catone
  28 luglio 2023 08:45

di VANNI CLODOMIRO 

Teresa Catone, Lettere, Vignate 2023

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Quando si prende in esame un lavoro letterario, che sia di poesia o di prosa, bisogna stare attenti a non sovrapporre i propri pensieri a quelli dell’autore del libro stesso: è un errore in cui spesso si incorre, perché è possibile che il critico riesca a vedere cose che, forse, non sono neanche passate per la mente dell’autore. Un esempio classico di quanto andiamo dicendo è la Commedia di Dante, opera sulla quale un’nfinita pletora di critici si è sbizzarrita a vedervi simbolismi e significati che nessuno sa se erano veramente nelle intenzioni del poeta. Perciò, accingendoci a recensire questo libro di Teresa Catone, dal titolo Lettere, cercheremo di non cadere nella tentazione di interpretazioni, per così dire, libere, che potrebbero, nonché valorizzare, recare al contrario un danno al lavoro dell’Autrice.

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Ciò premesso, cominciamo nel piccolo volume sono trattati quattro temi fondamentali: la donna, gli amori, l’anima e la vita. Si tratta di vere e proprie lettere, scritte a persone indefinite, in cui Teresa Catone apre la sua, per così dire, rassegna con un incitamento alla donna ad essere sempre se stessa, al di qua e al di fuori di ogni tentativo di condizionamento imposto dalle vicende del mondo esterno: deve sentirsi, ed essere, bella, lasciando incorrotti il viso e sopra tutto  l’anima. Ci sembra questo un primo approccio, in cui il segno distintivo deve essere il garbo, e magari anche la magia, della donna; dunque la forza di atteggiarsi di fronte all’esistenza in modo fermo e sicuro del proprio valore, al punto da riuscire ad affermare senza timori la propria personalità. L’A. non pretende di fare poesia, e meno che mai filosofia: vuole soltanto proporre una narrazione, anche se in modo più o meno simbolico, della realtà quotidiana, dei colori che segnano i vari momenti della vita, ma anche della considerazione che la donna ha dell’uomo: bello perché non si fa capire, bello perché a volte mente, a volte appare pensoso; gli uomini sono belli anche quando, con evidente emozione, vogliono manifestare i propri sentimenti («quando sono emozionati e nel dirti “ti amo”, abbassano la voce»). In fondo, per la scrittrice, gli uomini hanno un mal simulato timore delle donne. E in ogni caso, essi devono saper leggere gli occhi di una donna, prima ancora di guardare il suo corpo. Teresa Catone affronta anche un problema tanto grave quanto attuale: la violenza subita dalle donne. Le parole sono semplici, ma molto efficaci, per andare a fondo nell’umanità offesa: «sfiori i lividi sul viso, e ti abbracci per farti coraggio. Il fondotinta ha coperto i segni sul volto ma la tua anima è nuda». In effetti, i segni sul volto sono l’evidenza, ma la sensibilità dell’A. mostra al lettore tutto il dolore e il dramma che quel tipo di esperienza comporta. E tuttavia, la donna deve trovare, non nel prossimo, ma dentro di sè la forza per reagire, per uscire alla fine vittoriosa sull’indicibile momento vissuto.

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Subito però l’atmosfera del libro si eleva in quella specie di sovramondo, in cui si avverte l’intimità dell’animo di chi vive l’amore: che sia corrisposto o no, poco importa; ciò che conta è amare. E qui si sente riecheggiare un concetto dell’amore che la mente di chi ha confidenza con la storia letteraria dell’Italia non può fare a meno di ricordare, cioè un idea tutta spirituale dell’amore, di lontano sapore medievale, diremmo quasi dantesco: l’amore che scalda il cuore a chi ne è preso come una specie di calore costante di fiamma lontana. D’altronde, se in un primo momento quel senso antico del sentimento d’amore affiora nella mente del lettore, poi prendono il sopravvento la forza interiore, la volontà e la passione, che ci riportano al presente, con tutta la forza delle sensazioni («gioia, rabbia, paura...»), che in genere coinvolgono oggi tutti coloro che vivono e assaporano la dolcezza, ma anche il trepido timore, e talora addirittura il tormento della fine di un sentimento così intenso e pieno.

L’intimità sentimentale appare dunque al lettore come il filo conduttore del libro: nel profondo della sensibilità umana c’è l’anima, che ci regge e ci governa sempre, e che, come il mare, non fa silenzio mai, anche quando sembra tacere. Se poi due anime si incontrano, allora l’intesa è inevitabile, e l’una quasi sempre riflette l’altra; ciò potrebbe forse sembrare un gioco, ma in realtà ogni anima può divenire un riflesso dell’altra: perciò, nient’affatto un gioco, ma l’umanità più intima che risiede in ciascuno di noi. A un certo punto, l’A. si chiede cosa sia veramente l’anima, ma non ci offre una risposta, perché più importante è la comunicazione tra due, la condivisione e dunque l’amore. Teresa Catone mette in guardia dal rischio che un corpo possa ingannare l’anima: se un corpo è bello, magari si tende a pensare che lo sia anche l’anima, e così diventa difficile distinguere e molto più semplice confondere le due cose. L’apparenza può offuscare la bellezza dell’anima. Il discorso dell’A. sembra, a primo acchito, semplicistico e banale, ma, a ben riflettere, i rischi di una superficiale confusione sono in realtà elevati. Nel libro, questo intenso sentire dell’anima sembra proprio il punto centrale: l’interesse si appunta proprio sull’interiorità dell’essere. E questo è tutt’altro che banale. In fondo all’anima, se si scruta veramente, essa ti fa delle domande, ti chiede di guardare il mondo, di guardare l’uomo nella sua essenza, di guardare «i suoi perché», ma la devi ascoltare bene, altrimenti ti lascia e si allontana. E tu vieni immerso nell’abisso eterno del mondo, di fronte al quale puoi solo avvertire uno stimolo acuto di perdizione.

Dunque, al contrario del corpo, l’anima non sfiorisce; donde l’urgenza di ascoltarla costantemente, «fino in fondo», perché essa può far comprendere tutta la ricchezza che risiede nella più profonda umanità.

Naturale quindi che l’A. abbia piena consapevolezza che il vero amore consiste nell’amare l’anima, e allora «l’aria si impregna di passione», sofferenza, gioia. Perciò, l’amore è la vita vera, quella vita di cui bisogna accettare tutto: «le giornate di pioggia» e «quelle illuminate dal sole». Qui l’Autrice riprende un motivo classico della nostra grande poesia: il tema del temporale e della burrasca, che non possono essere evitati, ricorre come un momento di attesa, in quanto dopo non potrà che tornare il bello. In pratica, è il tipico motivo della quiete dopo la tempesta.

Ecco, bisogna porre attenzione a simili spunti – sparsi qua e là nel libro – che ci fanno capire che Teresa Catone possiede un concreto retroterra culturale che potrebbe anche sfuggire ad una lettura poco accorta, ma che invece non deve essere trascurato, se si vuole cercare di comprendere il mondo che sovrintende alla sostanza dell’ispirazione letteraria. Non crediamo che l’A. abbia autentiche velleità letterarie, ma piuttosto il contrario: riteniamo che voglia narrare con semplicità, in verità anche con chiarezza espressiva, i moti interiori di un’anima che si è accostata alla vita reale, fatta di sentimenti intimi, ma anche di gioia del quotidiano, con uno spirito modesto, ma anche con coscienza lucida e pulita. Donde la varietà dei temi affrontati: la solitudine come sensazione complessa e non facilmente definibile con una formula unica; il tempo di oggi, altrettanto complesso e per certi versi anche oscuro, in cui le persone sembrano essere delle isole; l’eterno tema della morte; perfino le sofferenze inflitte agli ebrei nella Germania nazista; ma su tutto, la sensazione di non essere propriamente figlia di questo tempo. Senonché invece, è proprio tale coscienza che rende Teresa Catone del tutto immersa nel nostro tempo, che tanti interrogativi e problemi pone a ciascuno di noi. A dimostrazione di quanto andiamo dicendo, c’è anche un doloroso accenno alla triste attualità della guerra russo-ucraina, che l’A. vorrebbe quasi racchiudere in una specie di scatola, per farne sparire tutto il male. Insomma, il libro parla un po’ di tutto, quasi volesse racchiudere, in una specie di caleidoscopio, il contenuto della vita in tutti i suoi aspetti e momenti.

Forse, a questo punto, si potrebbe pensare che un complesso così ampio di temi avrebbe avuto bisogno di una trattazione diversa, magari anche di tipo romanzesco; ma la narrazione di Teresa Catone è volutamente semplice: in questo consiste il suo merito, ma anche il suo limite, in quanto i temi accennati e non adeguatamente trattati lasciano nel lettore la sensazione non proprio gradevole di un’opera incompiuta, o non sufficientemente elaborata. Ma l’A. non pretende di più: si accontenta di un ritmo della narrazione semplice e discorsivo, in cui si dipanano di volta in volta i pensieri più diversi che tumultuano nella sua mente. Tutto sommato, crediamo che si tratti di un modesto insegnamento di vita, che appare essere rivolto più ai giovani che alle persone in età matura: un quadro più o meno ampio della vita e di quello che, da essa, ciascuno può e deve aspettarsi.

Per quanto riguarda più propriamente lo stile, diciamo che è sostanzialmente inteso come un modo tipicamente narrativo, senza sbavature e senza inutili artifici retorici. Forse, si potrebbe rimproverare a Teresa Catone un, per così dire, eccesso di semplicità, adatto cioè ad una sorta di lettura leggera, e perciò priva di significati e sensi reconditi.

Un maestro di retorica dell’antica Roma, Fabio Quintiliano, vissuto nel primo secolo d. C., quando, nel suo libro Istitutio oratoria, prese a parlare dello stile dello storico Tito Livio, lo definì come lactea ubertas (abbondanza di latte), per indicare che la prosa di Livio è piana, scorrevole e nello stesso tempo dolce e piacevole per il lettore, caratterizzata quindi da un’architettura costantemente fluente. Ebbene, riteniamo che una definizione simile si possa, senza eccessive forzature, ritenere adatta anche allo stile dell’A. di Lettere. Uno stile dunque tipicamente prosastico, anche se il libro si presenta scritto come fosse in versi.

Dunque, per concludere, merito del libro è la sincerità dell’intento e la semplicità dell’espressione linguistica. E comunque, come abbiamo in qualche modo accennato, questo è in fondo anche il limite del lavoro di Teresa Catone, che lascia al lettore la sensazione di un’esperienza letteraria e narrativa non ancora conclusa, ma ancora feconda, viva e protesa verso nuove esperienze.

 

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