La recente politica securitaria in Italia tra riforma della prescrizione e sovraffollamento carcerario

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L'avvocato Orlando Sapia
  25 febbraio 2020 15:55

La sicurezza, ora declinata quale sicurezza dei confini rispetto alle migrazioni in atto dall’Africa/Asia verso l’Europa, ora quale sicurezza interna rispetto al presunto aumento dei fenomeni criminali, in realtà in costante diminuzione da diversi anni[1], è la bussola che segna la rotta politica degli esecutivi susseguitisi negli ultimi decenni.

La riforma in materia di prescrizione, entrata in vigore in data 1 gennaio, ne è un chiaro esempio.

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In un contesto di povertà crescente e diffusa (le ultime statistiche parlano di quasi cinque milioni di persone sotto la soglia della povertà), ricorrere all’inasprimento di pene, in vero già alte,  introdurre nuove fattispecie di reato o reintrodurre reati come il blocco stradale e il divieto di accattonaggio e prevedere il blocco della prescrizione dopo la sentenza di I grado è espressione di un ricorso massimo ed eccessivo al diritto penale, tanto da aver suscitato le critiche del mondo accademico, dell’avvocatura, in particolare dell’UCPI, e di una parte della stessa magistratura.

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Risultato di queste politiche in materia penale è il costante incremento della popolazione detenuta, che il 30/01/20 ha toccato la cifra di 60.971 presenze, a fronte di una capienza regolamentare di 50.692, con ciò segnando un tasso di sovraffollamento del 120% .[2]

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La realtà del sovraffollamento carcerario è ormai una costante dell’ultimo quarto secolo, frutto sia della riforma costituzionale del 1992, che ha reso estremamente difficile la promulgazione dei provvedimenti clemenziali (amnistia e indulto), sia del costante inasprimento del sistema delle pene, in particolare per i reati c.d. di natura predatoria ed in violazione del Testo unico sugli stupefacenti.

Nonostante la narrazione mainstream dei mezzi di comunicazione spesso sostenga la necessità di interventi dello Stato in materia di sicurezza al fine di fronteggiare i pericoli legati alla presenza della criminalità organizzata, di stampo mafioso o terroristica, verificando i dati statistici del DAP si scopre che poco più del 10% sono i detenuti per reati connessi al 416 bis c.p. ed appena 149 (nell’anno 2018) coloro i quali rispondono per i delitti contro la personalità dello Stato, quindi ascrivibili alla categoria generale del c.d. terrorismo. La maggior parte dei detenuti, in verità, sono stati condannati per reati contro il patrimonio o in violazione del testo unico sugli stupefacenti. Violazioni molto spesso di non grande allarme sociale e sicuramente connesse sotto il profilo causale a condizioni di povertà ed emarginazione sociale.

In tale contesto, la riforma in materia di prescrizione, appena inizierà a produrre i propri effetti, comporterà un aumento del contenzioso penale e del sovraffollamento carcerario. Infatti, l’interruzione del decorso del termine prescrizionale dopo la sentenza di I grado causerà un allungamento della durata dei processi in grado di appello e l’aumento del contenzioso dinanzi alle corti territoriali, così violando il principio della ragionevole durata del processo. Altra conseguenza sarà l’incremento delle condanne e il conseguente aumento della popolazione carceraria.

Sono state raccolte le indicazioni provenienti dai settori più intransigenti della Magistratura, come dimostra la nota della corrente giudiziaria Autonomia e Indipendenza, a cui appartiene il dott. Piercamillo Davigo: "Le attuali norme sulla prescrizione rendono in gran parte inutili i procedimenti penali per i reati puniti con pene pari o inferiori a sei anni di reclusione, ovvero la stragrande maggioranza. Riteniamo necessario un intervento legislativo sulla durata e sulla sospensione della prescrizione, in modo da evitare l'effetto distorto di ‘amnistia permanente’ che tale istituto ha assunto nel corso degli anni a causa di un sistema processuale farraginoso e di difficile gestione".[3]

L’altra faccia della medaglia di questa visione securitaria è la necessità di costruire nuove carceri, come previsto dalle recentissime linee programmatiche del DAP. Tali istituti dovranno essere di grandi dimensioni e si avrà così la chiusura degli istituti penitenziari di piccole dimensioni considerati antieconomici, che in verità sono quelli che funzionano meglio, essendo l’attività trattamentale più personalizzata ed il rapporto personale specializzato/ detenuti più proporzionato rispetto alle grandi carceri.

Ancora una volta la ricetta è più carcere e meno misure alternative, in totale contrasto con la logica ispiratrice della recente, purtroppo naufragata, riforma dell’Ordinamento Penitenziario, che valorizzava il dato costituzionale della “rieducazione” del condannato e del suo reinserimento sociale, basandosi sulla circostanza, emergente dalle statistiche del mondo penitenziario, che la recidiva riguarda soprattutto coloro che scontano l’intera pena in carcere e molto meno chi è tenuto a seguire la strada dell’esecuzione penale esterna.

Le ragioni giuridiche contro la recente riforma in materia di prescrizione sono ampiamente conosciute e dibattute: il principio della ragionevole durata del processo, tant’è che qualche autorevole commentatore ha parlato di una “giustizia infinita”; il principio del venir meno dell’interesse dello Stato alla pretesa punitiva nei confronti dell’autore di un determinato reato (con il corrispettivo sorgere in capo all’autore medesimo del “diritto all’oblio”), come conseguenza del trascorrere del tempo.

Sotto il profilo politico, la battaglia portata avanti in special modo dall’UCPI contro la recente riforma è, altresì, un argine ad ulteriori svolte giustizialiste, tra le quali spicca addirittura l’abolizione dell’appello quale secondo grado di merito[4], che oggi sono sempre più ventilate ed auspicate dai settori politico-istituzionali che fanno della sicurezza una calamita per l’attrazione del consenso sociale.

Inoltre, è doveroso evidenziare che la previgente disciplina in materia di prescrizione comportava non solo uno sgravio del contenzioso giudiziario, ma soprattutto evitava un’ulteriore ed insostenibile aumento della popolazione detenuta. In un contesto sociale, fatto di povertà crescente, e penitenziario, fatto di sovraffollamento carcerario, la prescrizione produceva, per fortuna, gli effetti di quei provvedimenti clemenziali, che per lungo tempo hanno consentito la gestione del sistema penale e penitenziario italiano[5] e che oggi il sistema politico per non alienarsi il consenso elettorale non ha alcuna intenzione di realizzare.

Analizzata in quest’ottica la riforma della prescrizione non è una semplice riforma giuridica, dettata dalla necessità di uniformare l’Italia al resto del mondo civile, al contrario si tratta di una riforma politica che ha come finalità aumentare il ruolo del sistema penale nel governo di una società sempre più attraversata dalla povertà.

Molto spesso la narrazione dominante ci restituisce un’immagine della realtà giudiziaria che consente ad esponenti di ceti privilegiati, laddove incappano in accuse di corruzione o similari, di farla franca e restare, così impuniti, magari proprio grazie al “cavillo” della prescrizione.

In vero, a seguito delle riforme legislative che nel corso dell’ultimo decennio hanno  innalzato le pene per i delitti contro la p.a., i reati di corruzione/concussione e similari sono oramai, da qualche anno, difficilmente prescrittibili. Quasi impossibile è raggiungere la prescrizione quando si tratta di reati, per fare qualche esempio, quali associazione mafiosa, violenza sessuale, associazione per il traffico di sostanze stupefacenti, i cui massimali di pena sono molto alti e i tempi di prescrizione per legge, art. 157 c.p. , sono addirittura raddoppiati. Per non parlare dell’omicidio che, laddove punito con l’ergastolo, è addirittura imprescrittibile.

La conseguenza della riforma sarà di colpire con maggiore durezza i reati di natura predatoria (in particolare il furto nelle sue svariate declinazioni), la ricettazione, l’occupazione di terreni ed edifici, i reati di violenza e resistenza a pubblico ufficiale ed, infine ma non ultimo, l’ipotesi lieve del delitto di detenzione ad uso non esclusivamente personale di stupefacenti. In sostanza, reati compiuti da coloro i quali vivono ai margini della società.

Lo scenario descritto è preoccupante, non solo per la attuale realtà ma soprattutto per il futuro, molto prossimo, che si prospetta. La povertà crescente, il ricorso esasperato al diritto penale, la lungaggine dei processi, il sovraffollamento carcerario e la vetustà degli istituti di pena sono una triste realtà che solo peggiorerà.

La politica nel suo complesso dimostra di voltare le spalle a quella che è la sfida principale: garantire i diritti umani e con essi la funzione rieducativa della pena.

In questo frangente, l’Unione delle Camere Penali rappresenta una delle poche soggettività in grado di offrire una prospettiva differente, contrapposta alla logica giustizialista, e capace di lottare per la realizzazione di riforme che siano rispettose dei diritti della persona nel processo e nell’esecuzione penale. 

 

 *Avvocato e Responsabile Osservatorio Carcere - Camera Penale di Catanzaro “Alfredo Cantàfora”

 

[1]          http://www.antigone.it/quindicesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/meno-reati/

[2]              https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.pagefacetNode_1=0_2&facetNode_2=0_2_10&facetNode_3=3_1_6&facetNode_4=0_2_10_3&contentId=SST245520&previsiousPage=mg_1_14

[3]              Notizia riportata dalla rivista Lettera43, di seguito il link consultato in data 23/02/19, https://www.lettera43.it/it/articoli/politica/2018/11/05/emendamento-prescrizione-ddl-anticorruzione/225151/

[4]              https://www.ildubbio.news/2019/08/11/caselli-e-la-boutade-sullabolizione-dellappello/

[5]              “Storia dell’amnistia da Togliatti ai giorni di Tangentopoli”, Massimo Lensi, Il Dubbio, 14/04/17, di seguito il link http://ildubbio.news/ildubbio/2017/04/14/storia-dellamnistia-togliatti-ai-giorni-tangentopoli/

 

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