di ANTONIO LEVATO
Di tutte le notizie pervenuteci dalle zone maggiormente colpite dalla pandemia, alcune, anche a distanza di mesi, suscitano inquietudine e angoscia. In quei giorni tragici delle morti a grappolo molti anziani si sarebbero rifiutati di essere ricoverati in terapia intensiva, lasciandosi perciò morire nelle proprie case. Altri anziani già ricoverati in rianimazione, viceversa, chiedevano d’essere riportati
alle loro famiglie. Una fine certa e prevedibile. E ancora, la percezione di essere divenuti un intralcio alla cura di altri, meno anziani, scaricava sulle loro coscienze un qual senso di “colpa” tanto insopportabile da preferire di levarsi di torno.
Allo stesso tempo, inutile nasconderselo, nell’inferno in cui si era precipitati in alcune terapie intensive si è stati costretti maledettamente a scegliere tra aspettative di vita. Così nella drammaticità della situazione, seppure inconsciamente, s’è affermato in non si sa quanto larga opinione pubblica e certo suo malgrado, il convincimento inconfessabile che lo Stato non avesse risorse sufficienti per assistenza e cura delle persone che hanno “completato” il loro ciclo di vita e che, quindi, quelle risorse andassero destinate a beneficio delle
persone non anziane e con maggiori aspettative di vita. In fin dei conti in un mondo in cui si producono macchine e beni con una durata assai breve, non è opportuno e ancor meno necessario che gli uomini vivano troppo a lungo.
Di qualcosa dovranno pur morire e oltre una certa età si può metterli fra i rifiuti. Così, quegli anziani già condannati a vegetare nella solitudine e nella noia delle RSA davanti allo schermo del televisore sono diventati un rifiuto, un puro scarto. Che per gli ultimi dieci o vent’anni della vita un uomo non sia più che uno scarto è la denuncia del fallimento della nostra civiltà. Una sorta di darwinismo
sanitario che, messo alla porta dalla forza della nostra Costituzione, è rientrato, ahinoi, dalla finestra per l’imprevidenza e l’assenza di presidi sanitari. S’è così manifestata su due versanti la coda avvelenata di una cultura e ideologia economica che ha fatto della produttività del sistema e della persona il totem dei giorni nostri. Da una parte il sistema sanitario impoverito dal risanamento dei
bilanci; dall’altra gli anziani che, additati come indebiti fruitori di risorse altrimenti destinate ai giovani, hanno a tal punto interiorizzato il principio della produttività da indurli a comportamenti suicidi.
Conflitto generazionale lo hanno chiamato. La smemoratezza italica e l’ampollosa retorica sulle vittime da covid che ci accompagna fin dall’inizio della pandemia, hanno ora silenziato i fautori e teorizzatori di quel conflitto, fino a qualche tempo addietro sempre in scena col
colpo in canna, solerti a indicare e a volte fomentare quel conflitto come uno dei fattori dell’arretratezza del Paese. Una vera e propria azione di distrazione di massa che indicava ai giovani il loro nemico negli anziani. Una cinica operazione volta a distrarre i giovani dal sistema di disuguaglianza, iniquità e soprusi nel quale viviamo e a distrarli dalla cognizione di come domani la condizione a loro
riservata sarà peggiore da quella assegnata agli anziani oggi. Una operazione politica indecente mai vista prima. Nessuno ci toglie dalla testa che viviamo in una società ed in un sistema profondamente malati, in cui i rapporti tra gli uomini e tra gli uomini e le cose sono il contrario delle forme di civiltà che ogni uomo si aspetta. Dove l’umanità è sopraffatta dall’economia, dove gli ospedali
diventano cimiteri ma la borsa moltiplica i guadagni. Modificare, riformare, intaccare i meccanismi che generano quella malattia e quei rapporti, è terribilmente difficile, ma urgente. Nella comunità umana, da un certo punto in poi, si sono affermate tradizioni, convenzioni, principi consolidati, infranti i quali “si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”.
Esigere l’umanizzazione della vita e della società, che gli uomini rimangano tali anche da vecchi è l’imperativo etico
cui sottomettere la politica e l’economia. Sarebbe bene che, nell’euforia della ripartenza non si dimenticasse troppo in fretta quanto abbiamo vissuto in questi mesi e si reclamasse dai pubblici poteri un punto e a capo, prima che i soliti noti dispieghino la forza restauratrice del “tutto come prima”. Ci rifiutiamo d’immaginare che possano esserci in futuro giorni da passare tra un bollettino e
l’altro della Protezione Civile, guardando l’ora, sentendo suonare la campana del “tutto va bene” e pensando che l’altra campana, quella a morto, non suoni anche per noi.
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