di DOMENICO BILOTTI*
Il 12 giugno gli italiani saranno chiamati a votare non solo per le elezioni amministrative, nei comuni nei quali si vota, ma anche e soprattutto per una importante consultazione referendaria in tema di giustizia. Il voto locale è certo di straordinaria importanza, ma nei contesti locali non si può dire ne stia mancando la copertura mediatica: anzi, la percezione, come spesso avviene, è che tra comunicati e comizi ci sia quella mole di informazioni e pronostici che poi si dissipa immediatamente a urne chiuse. La situazione opposta riguarda i referendum sulla giustizia: i partiti più importanti non si sono schierati in modo evidente (nemmeno alcuni dei promotori!), le televisioni, i giornali e persino la rete languono.
Una delle possibili ragioni di questo silenzio consiste nel metodo molto selettivo col quale la Corte costituzionale ha giudicato dell’ammissibilità dei quesiti. Ne erano proposti otto: tre sono stati “cassati”. Probabilmente i tre che avrebbero suscitato più impegno e posizionamenti: sulla cannabis, sul suicidio assistito, sulla responsabilità civile dei magistrati. Soprattutto per i primi due quesiti, per strano possa finanche apparire, indicazioni demoscopiche e statistiche parlavano di una maggioranza forte nel Paese, in senso di legalizzazione e liberalizzazione. La Corte, per bocca del suo autorevole Presidente, aveva nei giorni precedenti la decisione indicato di adottare un approccio sostanzialistico, volto a favorire la massima partecipazione. In realtà, nonostante da tempo i giuristi siano impegnati sul tema della stesura redazionale nei quesiti (visto che le tecniche di ritaglio per comporli sono sempre più parcellizzate e meno leggibili), ci pare che quel criterio materiale indicato dal Presidente sia stato applicato in modo esageratamente parco. Si vota, si, ma per i cinque quesiti che sul piatto dell’opinione pubblica hanno meno forza e consistenza.
Si vota su temi importanti. Per ridurre la custodia cautelare, eliminando tra i suoi elementi giustificativi la possibile reiterazione del reato, che ha un impatto enorme sul numero dei detenuti in attesa di giudizio. Per rimettere al singolo giudice competente, e non a un automatismo di legge, la decadenza dell’amministratore o del rappresentante riconosciuto colpevole di alcuni reati (oggi, in spregio al giusto processo costituzionale, opera una forma di sospensione anche per condanne in primo grado) – e l’applicazione di questo automatismo ha avuto le note e sin troppe oscillazioni nel suo primo decennio di attuazione. Decaduti anonimi o non sospesi eccellenti.
Si vota, ancora, per includere avvocati e professori di materie giuridiche nella valutazione sull’operato dei giudici: potrebbe essere un meccanismo di cooperazione, visto che in altri Paesi strade simili sono state battute. Per esonerare il magistrato dall’obbligo di presentare tra le 25 e le 50 firme a sostegno della propria candidatura in senso al Consiglio superiore di magistratura, per separare le carriere di giudici e pubblici ministeri. Molta carne a fuoco, ma molto dibattito tecnico, preciso, che abbisogna di serenità e che indica tuttavia la natura cruciale di tante questioni oggi in atto.
Le materie in esame possono ricevere il referendum come strumento per favorirne la conoscenza presso l’opinione pubblica, si raggiunga o meno il quorum previsto per la sua validità o si scelga per il no e non il si: finalmente senza frazionismi esasperati, senza chiamate alle armi. Diciamoci pure la verità: ambiti così impegnativi e legati al funzionamento delle istituzioni e alla loro percezione nella collettività avrebbero meritato negli anni ben altri Parlamenti. Più assertivi e propositivi, più qualificati e meno settari nelle scelte da presentare. Non è stato così: il pallino della possibile riforma ha avuto ancora una volta bisogno dell’iniziativa governativa.
In questa fase, quali che siano i punti di vista effettivi di ciascuno sulle tematiche e sul come sarebbe meglio disciplinarle (col pungolo referendario o con un più partecipe attivismo parlamentare), ci sembra necessario e doveroso rivendicare una discussione ampia e un cantiere serio e condiviso sulle esigenze di giustizia.
Il sovraffollamento carcerario, la durata dei procedimenti, la comunicazione poco precisa e molto insultante sulla delicatezza delle questioni giudiziarie, la formazione dei professionisti tutti – i legali, i giudicanti, le tecniche investigative, gli esperti della conciliazione, la sinergia tra l’impresa sana e l’attività notarile - … devono restare, quanti siano gli elettori il 12 giugno e qualsiasi cosa scelgano, cruciali all’attenzione e ai bisogni comuni.
Il vero impegno civile e la vera traccia di un largo confronto specialistico possono partire dal giorno dopo. Anzi: dal giorno prima. Sempre. Non accorgersene ci ha regalato una serie enorme di colpi a vuoto a detrimento, in special modo, dei diritti di cittadinanza.
*Docente Umg
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