di CLAUDIO MARIA CIACCI
Ci sono giorni in cui la cronaca non è solo racconto, ma grido, scontro, rivelazione. Quanto accaduto il 21 luglio scorso in due città lontane, Perugia e Riccione, parla al cuore dell’uomo in modo drammaticamente diverso, generando emozioni contrastanti. E chi ha una visione cattolica della vita, non può non porsi delle domande. Perché la vita, quando la si guarda nella sua interezza, non è un possesso da amministrare, ma un dono da custodire.
A Perugia, Laura Santi, 50 anni, giornalista, moglie, attivista e malata da anni di sclerosi multipla, ha scelto il suicidio assistito. Lo ha fatto nel rispetto della legge, in casa sua, alla presenza dei sanitari, con accanto il marito. È diventata così la nona persona in Italia a morire tramite questa procedura. I giornali hanno raccontato la sua “libertà”, il “coraggio”, la “consapevolezza”.
Eppure, in una delle ultime frasi rivolte proprio al marito, parole confermate da lui stesso in un’intervista, Laura gli ha chiesto:
«Vuoi che resti ancora con te?»
Non una richiesta retorica, ma un grido che tradisce la possibilità di un ripensamento, forse persino il desiderio di restare.
Possiamo non chiederci se Laura, pressata dal circolo mediatico e dalla visibilità assunta dal suo caso, non si sia sentita prigioniera di una scelta già raccontata e narrata come definitiva? Chi, nell’ultimo tratto della vita, quando il buio sembra farsi fitto, non ha bisogno di una luce più grande della propria volontà?
(«Ci hai fatti per Te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te.» Sant’Agostino) Chi, davvero, può dire di essere padrone del proprio corpo?
L’uomo non decide di nascere. L’uomo può scegliere come vivere, ma non è il vero padrone di sé, perché se lo fosse, non sceglierebbe mai la malattia, il dolore o la morte. Se bastasse volerlo per guarire, chi sceglierebbe il cancro, l’invalidità, la depressione?
(«La vita dell’uomo non è nelle sue mani, ma nelle mani di Dio. Non gli è lecito distruggerla.»
San Tommaso d’Aquino)
La padronanza che rivendichiamo sul nostro corpo è una bugia moderna. In realtà, non ci siamo dati la vita, e non possiamo quindi pretenderne la conclusione arbitraria. Il disegno divino, che per il cristiano è reale, eterno, saldo, non si interrompe con un farmaco o una firma burocratica. È misterioso, a volte doloroso, ma non ci è stato dato per essere reciso.
A Riccione, a molte centinaia di chilometri da Perugia, nello stesso giorno, una bambina di nove anni disabile, in carrozzina, è caduta in acqua durante una festa. Una tragedia sfiorata. Ma non è finita in tragedia. Un carabiniere fuori servizio, Giovanni Giugliano, si è tuffato d’istinto e l’ha salvata, liberandola dai blocchi della sedia a rotelle.
Non è stata la forza della legge, né l’eroismo codificato di una divisa: è stato un uomo, tra gli uomini. Un uomo che ha risposto con la vita alla vita.
La bambina, stretta tra le sue braccia, ha sorriso. Ha pianto. Ha ringraziato. La madre, anche lei con il cuore spezzato e rinato nello stesso istante, ha abbracciato quell’uomo, chiamandolo col linguaggio che la fede riconosce: angelo custode.
(«Ogni uomo che salva una vita è custode dell'immagine di Dio nel mondo.»
San Giovanni Paolo II)
Ecco la differenza che inquieta: una donna adulta, malata, ha detto addio alla vita chiedendo silenziosamente al marito se fosse giusto farlo. Una bambina disabile, impotente, ha lottato per vivere. E ha gioito di essere salvata.
Chi potrà dire che la prima era “libera” e la seconda “condannata”? Chi può guardare negli occhi di quella bambina e affermare che sarebbe stato meglio lasciarla morire? Solo chi ha smarrito il senso del dono, solo chi ha sostituito l’uomo a Dio.
Viviamo in un’epoca dove l’abisso della disperazione viene chiamato “libertà”, e la carità concreta viene ridotta a “caso umano”. Ma le due scene avvenute nello stesso giorno non possono restare separate, dimenticate.
Questa riflessione non nasce a Perugia o Riccione, ma da Catanzaro, dove il cuore del cristiano si fa inquieto. Perché una nazione che legalizza il suicidio, e nello stesso tempo celebra chi salva una bambina, è una nazione divisa tra la luce e le tenebre. Come può un popolo riconoscere un salvatore senza riconoscere un Salvatore?
Non si tratta di giudicare Laura, né di glorificare un carabiniere. Ma di ricordare a tutti, credenti e non, che la vita non è nostra, e che non vi è alcuna “libertà” nella morte voluta, ma soltanto una rinuncia al mistero del vivere, che è anche sofferenza, attesa, speranza.
Laura e la bambina disabile ci hanno detto molto. Una ha chiesto, forse troppo tardi, se fosse giusto andare via. L’altra, senza poter scegliere, ha sorriso per essere rimasta. Non giudichiamo i cuori, ma guardiamo i segni: il dolore non è da esaltare, ma non può essere il motivo per spegnere il respiro.
E se in mezzo all’acqua un uomo qualunque può essere angelo, forse anche noi possiamo ancora scegliere da che parte stare. Tra chi chiude gli occhi... e chi salva.
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