di FRANCO CIMINO
Fatto il buon pranzo della domenica con la felicissima compagnia di chi l’ha preparato, la mia bellissima mamma, nonna meravigliosa delle mie “ bambine”( lasciatemi chiamarle ancora così), ora che sono le 14, 30, mi preparo per uscire. Oggi è una domenica di festa per me. Per noi. È festa per Catanzaro. Lascerò da parte per un po’ il dolore per quanto accade nel mondo, e in piena Europa, e anche la tristezza per questa brutta politica che si sta abbattendo sulle imminenti elezioni amministrative. È festa buona, questa. E, allora, metterò l’abito buono ed elegante per celebrarla. Faccio così nelle occasioni date. Importanti. Solenni. Mi recherò infatti in due Chiese diverse, per festeggiare i loro eventi. E non è per nulla un caso il fatto che questi due luoghi si trovino a distanza di solo cento metri e le due “ celebrazioni” a quella di soli novanta minuti. Il mio muovermi tra esse é pure agevole, esco da una e mi infilo nell’altra. Le due chiese, una religiosa e l’altra laica, si trovano lungo il Corso del centro Città. La prima è la Basilica dell’Immacolata. La seconda, è il teatro Comunale. Nella prima si celebrano i novecento anni della Diocesi. Nel secondo si celebra il Teatro. Per tali motivi, questa domenica è festa grande. È festa di Catanzaro, luogo della intensità religiosa e della profondità culturale. Così ci racconta la sua storia. E lo fa attraverso due edifici che di affetto e di riconoscenza legano i catanzaresi ai loro padri e al lungo cammino, anche quello più recente dell’immediato dopoguerra, che essi hanno fatto per rendere Catanzaro bella e colta. Civile e anticipatrice dei tempi. La Basilica che conserva il culto verso la Madonna, sua matrona, e il Comunale che ha offerto in una ininterrotta continuità, pure nella sofferta solitudine del primo ventennio del duemila, grandi stimoli culturali, attraverso il teatro e grandi momenti di svago e divertimenti, attraverso il cinema e le diverse manifestazioni canore
. Ovvero, di profonda riflessione per l’ospitalità che concedeva alla politica e alle sue iniziative. I novecento anni della Diocesi coincidono con i novecento anni della edificazione della Cattedrale, ai più ancora nota come il Duomo. La Chiesa monumentale che ci faceva grandi, anche orgogliosi. E forti e coraggiosi, avendola saputo ricostruire più bella e imponente, anche se profondamente modificata, dopo la distruzione causata dai bombardamenti vigliacchi del 1943. La Festa del Teatro, invece, si svolge, purtroppo, senza il Teatro storico, il famoso San Carlino, che fu la prima vittima della follia di quel modernismo che stava distruggendo, comunque rovinandolo, il nostro bellissimo Corso. Quell’arteria vitale, cioè, che, dolcemente, dal San Giovanni scende fino al balcone di Bellavista, offrendo generosamente la Città alta al mare che dimora ai suoi piedi. Il suo mare.
A questa festa manca anche il Duomo, da molti anni ormai chiuso per la sua fragilità strutturale che richiede un intervento di ristrutturazione imponente. Un intervento che la Regione ci ha promesso, attraverso un primo finanziamento già concesso ma inutilizzato e l’altro, ancor più necessario, che è rimasto solo nel libro delle promesse bugiarde, nonostante la forte, coraggiosa e lunga pressione di mons Bertolone presso le istituzioni di ogni livello. Ma non roviniamoci la festa, che invece va goduta con orgoglio. Ci sarà tempo per fare quelle grandi battaglie della Città e dei cittadini per restituirci, a noi e alla Calabria, il Duomo della nostra vita.
E della esaltante storia di Catanzaro, la città aperta e colta, sana e pensosa, necessaria a una Calabria che voglia davvero progredire e liberare se stessa e la regione dai lacci e lacciuoli che la tengono prigioniera della sua immobilità. Ma c’è una assenza- presenza, che oggi campeggia sulla doppia festa, in quanto uomo di chiesa dalla intensa spiritualità e dalla cultura profonda, ambedue strettamente unite dall’amore devoto che ha nutrito per cinquant’anni per la “sua” Catanzaro, dove ha scelto, regalandole le sue sacre spoglie, di riposare per sempre. È Antonio Cantisani, l’amico mio prezioso, il nostro vescovo infinito, anche nel tempo catanzarese. Quello del futuro che Lui ha illuminato con la sua azione pastorale e con la sua immensa opera culturale. La sua ultima fatica di storico preparatissimo, “ Storia della Diocesi di Catanzaro” è il suo ultimo dono. Per la sua Catanzaro e la Chiesa, la sua “ sposa”. Un dono la cui preziosità culturale si farà valere più avanti, quando gli studiosi più attenti lo avranno considerato uno dei lavori più importanti di tutta la storiografia sulla Calabria e l’intero Meridione.
Forse, lui ci teneva davvero tantissimo a essere presente questa sera in Basilica e ancor di più il prossimo giovedì, alla Sancti Petri, per la presentazione del suo libro. Ma Dio ha avuto, anche qui, il Suo progetto per questo santo prete e, sornione, avrà pensato che per Lui sarebbe stato più bello gustarsi questa Festa dal Paradiso. Parlarne insieme sarebbe stato più utile. E certamente così sarà.
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