La riflessione di Domenico Bilotti su “la natura individuale e sociale della violenza contro le donne”
Domenico Bilotti
27 novembre 2020 08:52
di DOMENICO BILOTTI
Maradona è stato probabilmente il più grande calciatore di tutti i tempi; per la cultura popolare odierna è come se John Lennon avesse avuto il pallone anziché la chitarra.
È innegabile che l’avvenimento della sua morte e appena prima i teleservizi per la giornata mondiale contro la violenza sulle donne abbiano tolto spazio all’informazione sulla pandemia da coronavirus (con sollievo forse dei molti che, negazionisti, ipocondriaci o cittadini comuni, davvero non riescono più a seguire quel flusso ininterrotto di astrazioni, cifre, ipotesi azzardate e disservizi concreti).
Mentre le bacheche dei social si affollavano di mani di Dio, di peana e moralismi, di bardature colorite e di nuove ipotesi di allentamento delle restrizioni, avvenivano due “femminicidi”: uno a Padova e uno in Calabria.
La più becera immagine dell’unità culturale d’Italia, l’indifferenza del morbo a latitudini e longitudini. E si tratta degli episodi comuni, ahinoi, di quella cronaca nera che se non viene assaporata per qualcosa di pruriginoso, finisce poi nelle pagine interne, nelle due/tre righe di sovraimpressione durante un telegiornale.
Ancora: stamattina tempo di aprire web e notizie e di nuovo una storia in Calabria di una donna pestata a sangue tra le mura di casa. Difficile che queste storie possano mai prendersi le aperture: bocconi di miserie e macerie, violenze ed esperienze.
Troppo poco per reggere il tritacarne enfatico delle risposte emozionali cui ci siamo abituati. E che termine astruso ci si è scolpito in mente: “femminicidio”, come se la stessa gravità del fatto dovesse cambiare lente focale in ragione del genere, del ruolo o talvolta dell’orientamento sessuale. Chi scrive ha dubbi sul piano assiologico-giuridico circa la configurazione della fattispecie delittuosa e ancora di più ne ha quando la soggettività femminile è costretta a venire riletta secondo categorie “brodino”. Le quote rosa negli organi elettivi, ad esempio, possono essere cose utili se riequilibrano l’oggettiva preponderanza di nomine politiche al maschile, ma in un sistema equo, bilanciato, reattivo all’effettiva vivacità del sociale, non dovrebbe proprio esistere il tema della “eleggibilità preferenziale per legge”.
Quanto poi alle violenze domestiche, a volte, come consigliamo agli studenti quando porgiamo loro sentenze, bisognerebbe consigliare di leggere il “fatto”, e non solo il “diritto”: il contesto in cui matura la condotta violenta, non solo le forme del suo compimento.
E troveremmo coltellate più profonde di tutte le lame del mondo: storie di segregazione coattiva, di esistenze precarie, indocili, in bilico sempre tra l’accettare e il soffrire, il tollerare e il proseguire, il vivere e il morire. Storie, come alcune delle ultime, di dipendenze ed estrema marginalità sociale, dove la prassi violenta in una famiglia diventa un pestilenziale sfogatoio di tutta la bile con cui si instilla la vita comune. O, pure peggio se ci mettessimo a far classifica, storie di noia, di mancanza di felicità, di indifferenza estrema, dove il violento abituale costruisce la sua azione nella più apparente (e, perciò, preoccupante) normalità. Che questo contesto sociale e che le strutture obbliganti nella cultura del nostro tempo, al netto delle decisive responsabilità individuali, siano sempre e comunque alleati dei carnefici e non delle vittime?
Quanto ci interroga il tema delle responsabilità … che gli abusi avvengano in tuguri, palazzine, villette a schiera, che siano botte da orbi di soggetti con asseriti problemi psichiatrici o sevizie di insospettabili, l’emergere del dato giudiziario ci dà molto raramente cornici di imprevedibilità. Il raptus, il salto, l’attacco, possono esistere e senz’altro esistono, ma quanto più spesso il gesto omicida, le lesioni gravi, le torture persino, hanno una storia, un vissuto, una presenza percepita nell’ambiente? Ecco, sul piano del vivere reale, più che alle coccarde, toccherà guardare agli accadimenti che ci sono attorno, perché se questa generazione non saprà archiviare l’abominio e il lerciume delle storie di stupri, sfruttamento domestico, coltellate, consuetudini di confinamento, essa del tutto innocente non potrà professarsi mai più.