di FELICE FORESTA
Ho sempre amato i dettagli. Per la loro innata capacità disvelatrice. Ci parlano come i segni. Ma richiedono un attimo di attenzione in più. Quella per varcare la soglia, e scendere giù. Quella che serve a farci andare oltre. Oltre i confini. Già i confini.
Ne abbiamo ancora troppi. Mentre, in questi giorni di memoria e di ignominia, reticoli di filo spinato custodiscono il resoconto di una ferita che brucia ancora. Purtroppo, la storia si rinnova. È ammonitrice, e continua a propinarci tanti, troppi confini. Oggi, forse, il limite è più netto. Stressato. Esasperato. Da un lato i bravi, dall’altro i mascalzoni. Da una parte i belli, i vincenti, gli inarrivabili. Dall’altra i brutti, i perdenti, e i perduti. Senza vie intermedie. Senza vite mediane. Senza stanze di compensazione. Le parole di Augias sulla Calabria questa volta hanno punto, e hanno fatto male. Non già per il loro portato che, come quello di ogni affermazione, soffre difronte al bivio della opinabilità. Ma perché ha voluto accentuare l’irredimibilità di quel confine che, oltre il Pollino, designa la Calabria.
Credo che sia questo il punto su cui interrogarsi, e interrogare le nostre coscienze. Il confine che si sta dilatando tra paese ideale e paese reale, tra resto d’Italia e Calabria ha ancora un’utilità intrinseca? E, se sì, dove conduce? Alla cassazione di un profilo geografico, sociale, antropologico? O il vuoto che impaurisce, come quello che separa due viadotti in autostrada, lo si vuole davvero iniziare a colmare? Con l’aiuto di tutti che, certo, deve transitare da un’autentica presa di consapevolezza dei Calabresi tutti, e non solo di quelli più illuminati. Che, purtroppo, duole dirlo, sono spesso i peggiori nemici di se stessi? Barriera, confine, steccato. Dovremmo emendarli dal nostro lessico, questi termini. E, invece, dovremmo ambire a riappropriarci del loro senso. Il senso del limite.
Ecco cosa ci manca. In ogni ambito. Quando si parla. Quando si abusa della propria posizione. Quando si calpesta la dignità altrui. Anche in nome di grandi ideali. Quando si pontifica senza conoscere. Quando si cerca una sola verità.
La propria. Quella che ci conviene. Quando ci si gira dall’altra parte. E il calendario potrebbe seguitare. Preferisco fermarmi. Anche di fronte all’unico filo spinato dove mi sono graffiato senza piangere. Quello che protegge la montagna da un menestrello discolo che, ormai grande, continua a confinare se stesso. Entro il limite della sua piccolezza.
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