DI FILIPPO VELTRI
La crisi della magistratura è giunta a un punto tale che non si può più far finta di niente e l’esigenza di un intervento radicale è testimoniata dallo spettacolo offerto dagli stessi magistrati intenti ad accusarsi l’un l’altro in diretta televisiva. Quanto emerso dal caso Palamara prima e dal caso Amara impone urgentemente una riforma di sistema. I referendum dal Partito Radicale e il ravvedimento sul tema di una parte non marginale del Pd (leggi Goffredo Bettini sul Foglio di due giorni fa) fanno ben sperare.
Mattarella lo ha detto, del resto, a chiare lettere. Intervenire a partire dal Consiglio superiore della magistratura e dai meccanismi che regolano correnti e carriere e’ forse il primo problema. Sono 30 anni che si continua a mettere la polvere sotto il tappeto, come ci ricorda il titolo di un libro fresco di stampa: “Polvere” (Mondadori), scritto da Chiara Lalli e Cecilia Sala, dedicato al caso Marta Russo, la studentessa assassinata all’Università La Sapienza di Roma il 9 maggio 1997.
“Polvere” ci ricorda, volontariamente o no, che cos’è – da decenni – la giustizia italiana: non questo o quel magistrato, perché qui parliamo di una costruzione accusatoria che ha superato tre gradi di giudizio, senza mai perdere un milligrammo della sua clamorosa, evidentissima, sconvolgente assurdità. “Polvere” ci ricorda anche, volontariamente o no, cos’è il giornalismo italiano: non questo o quel giornalista, perché parte fondamentale del meccanismo diabolico che ha reso possibile l’incredibile vicenda puntualmente documentata nel libro è un clima di opinione cui hanno concorso decine di giornalisti, commentatori e conduttori televisivi.
Volontariamente o no, “Polvere” ci ricorda, soprattutto, che cos’è l’Italia: un Paese in cui lo stato di diritto semplicemente non esiste e vicende come questa possono accadere in qualsiasi momento, magari senza che nessuno se ne accorga. E ci ricorda, dunque, che in un paese in cui le regole non esistono perché esistono solo le relazioni, i colleghi da coprire e i cugini da raccomandare, basta pochissimo per perdere tutto. Per passare in un attimo dalla casta dei privilegiati a quella dei paria. Può bastare, letteralmente, un granello di polvere.
È sulla giustizia, sul ruolo preponderante assunto dalla pubblica accusa, in un perverso intreccio con la stampa, che in Italia sono saltati l’equilibrio e la divisione dei poteri, all’inizio degli anni ‘90. È da lì che è iniziata la regressione populista – politica, economica, sociale e civile – crudamente documentata dalle cifre riportate da Mario Draghi nella premessa al suo Piano nazionale di ripresa e resilienza. E dunque è da lì, e solo da lì, che dobbiamo cominciare a rimettere le cose a posto, se davvero vogliamo avere una speranza di interrompere questa trentennale spirale autodistruttiva.
Del resto ci sono le cifre e i numeri del sondaggio pubblicato oramai da quasi un mese sul Corriere della Sera da Nando Pagnoncelli (nel silenzio assordante piu’ o meno assoluto) sul grado di credibilita’ dei magistrati nel nostro Paese, mai cosi’ in basso: il grado di fiducia degli italiani ci dice che uno su due dichiara di non averne. In 11 anni il credito dei magistrati e’ crollato,passando dal 68% di fiducia al 39% odierno. Il sondaggio – come ha giustamente sottolineato l’avvocato Caterina Malavenda – non ha sorpreso nessuno. L’avvocato calabro-milanese ha poi aggiunto:’’La giustizia funziona solo quando un sentire condiviso la individua come lo strumento necessario per perseguire i colpevoli in tempi ragionevoli, con pene certe e cosi’ dissuadere a farlo chi volesse violare la legge’’.
E’ evidente che quel sentire da noi non esiste piu’.
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